Il portone del palazzo del 
      Risanamento di via Arenaccia 113 (Napoli)
      
      A 
      mio padre
      
       
      
      
      Fra poco sarà Natale. Stasera candidi fiocchi di neve lievi danzano 
      nell’aria sulle note di una melodia invisibile che arriva da lontano: è 
      l’eco delle voci del passato, degli allegri Natale del tempo in cui la mia 
      famiglia era tutta riunita intorno alla tavola imbandita fra l’albero e il 
      presepe, fra laute portate, risate e tombolate.  Quello era il “focolare”, 
      allora era Natale e santo davvero quel giorno! 
Ricordo che la sera della 
      vigilia picchiavamo al portone del vecchio palazzo popolare dove, 
      all’angolo di strada, con le mani infilate nei mezzi guanti di lana, 
      vendeva le odorose caldarroste la castagnara, che vi stazionava già dal 
      mese di ottobre: lì abitavano i nonni.
Scalpitando sotto lo sguardo 
      materno, con ansia aspettavamovamo noi bambini di 
      poter salire su dai nonni in nostra attesa, stretti l’uno all’altro, 
      felici accanto al loro alberello, piccolo, ma che ai nostri occhi appariva 
      gigantesco, tanto era splendente di luci e di colori e tanta la gioia nei 
      nostri cuori di rivederli.
Bella più di ogni altra festa era allora Natale, dolce più delle paste 
      glassate consumate fra risa e sorrisi. Spento per sempre, ormai, è quel 
      focolare dove l’infanzia placida trascorse. Ma io mi ricordo di un Natale 
      in particolare…
Quell’anno con maggiore trepidazione lo aspettavamo. Cosa insolita per la 
      nostra città di mare, qualche settimana prima era caduta la neve. 
      Silenziosa, muta, era arrivata all’improvviso.
      
I miei fratelli, mia sorella ed io guardavamo stupiti la candida coltre 
      che aveva ammantato ogni cosa, gli alberi, le strade, i tetti delle case, 
      anche il nostro vulcano affacciato sul mare al quale sembrava avessero 
      messo sulla cima un bianco berretto.
      
Eravamo entusiasti della neve, del lungo periodo festivo che si avvicinava 
      che ci avrebbe allontanati per un po’ dalla scuola e ci avrebbe permesso 
      di essere coccolati in famiglia e di dedicarci ai nostri giochi, e, 
      soprattutto, della sorpresa che ci attendeva: da diversi anni nostro padre 
      lavorava all’estero, ma di lì a qualche giorno sarebbe tornato per 
      trascorrere con noi le festività.
Lui era di poche parole, severo, a tratti burbero, con la fronte 
      costantemente corrucciata a inseguire chissà quali pensieri, la mente 
      sempre attraversata da qualche preoccupazione. Non aveva grandi slanci 
      verso di noi, mai una tenerezza, un sorriso, solo, le rare volte in cui 
      era in casa, ci impartiva ordini, che noi figli eseguivamo senza batter 
      ciglio, come soldati disciplinati, perché lo temevamo, ma sapevamo che, 
      oltre la sua autorità, ci amava e forte sentivamo la sua mancanza dovuta a 
      quell’assenza lavorativa. Ma quando si preparava il Natale si trasformava 
      completamente. Era sempre allegro e gli occhi gli si illuminavano come un 
      bambino quando portava a casa l’albero vero, acquistato al mercatino 
      rionale, ancor di più quando cominciava ad allestirlo, con le palline, i 
      fili dorati, la stella dell’oriente, le luci e tutte le altre decorazioni 
      conservate dall’anno precedente e scartate come una reliquia, diffondendo 
      come per incanto la magia della festa, sempre cantando un antico motivo 
      natalizio che ancora oggi mi rimbomba nella mente: 
      
      
      Mò vene Natale 
      
      
      e nùn tengo renare 
      
      
      ‘o megli pizz è ‘o fuculare.
      
      
      Mò vene Natale 
      
      
      ‘e renze ‘e renze
      
      
       ò putecaro me fà a crerenza, 
      
      
      ò cantenier me dà o vino 
      
      
      facimme Natale n’grazi ‘e Ddio. 
      
      
      Mò vene Natale 
      
      
      e nùn tengo renare 
      
      
      Me fum nà pippa 
      
      
      e me vaco a cuccà 
      
      
      A mezzanotte 
      
      
      sparano ‘e botte 
      
      
      Me metto o' cappotto
      
      
      E me vaco a vede’.1
      
      
      Quello con la neve a Napoli fu l’ultimo Natale trascorso insieme, tutti 
      riuniti, prima che violenta si abbattesse la tempesta sulla nostra 
      famiglia. Uno ad uno, negli anni, cominciarono a mancare i componenti. 
      Posti vuoti a tavola, sedie vuote, cari dipartiti, rapporti infranti, da 
      occasione di allegria e spensieratezza, il Natale si tinse di tristezza, 
      mestizia e nostalgia, e diventò il Natale dell’assenza. Addio per sempre 
      alla magia e alle emozioni dell’innocenza!
E, anni dopo, troppo tardi, avrei scoperto che, dietro il volto corrucciato 
      e minaccioso di mio padre, si celava un animo gentile e che la cifra del 
      suo carattere era la (celata) tenerezza.
      
      
       
      
      
       
      
      
      
      1
      
      
      Ora arriva Natale e non ho soldi
      
      
      
       il luogo migliore è la casa.
      
      
      
      Ora viene Natale e furbamente 
      
      
      
       il negoziante mi fa  credito,
      
      
      
      il cantiniere mi da il vino
      
      
      
      trascorriamo Natale nella grazia  di Dio.
      
      
      
      Ora viene Natale e non ho soldi 
      
      
      
       fumo una pipa e me ne vado a dormire.
      
      
      
      A mezzanotte sparano i botti
      
      
      
       mi metto il cappotto
      
      
      
       e vado a vederli.
      
      
        
      
      
      
      
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