FRATELLI A UN
TEMPO STESSO, AMORE E MORTE
presentazione del libro

Fratelli, a un
tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Così comincia
il XXVII canto di Leopardi, che torna immediatamente alla memoria alla
lettura del titolo e del sottotitolo di questo mirabile libro di Francesca
Santucci: amore e morte nel tempo umano della storia e nel tempo immortale
dell’arte e del mito, della poesia e del romanzo. Da Orfeo ed
Euridice ad Ugo e Fosca, l’autrice ripercorre le storie di amore distrutti
da un destino avverso, dal caso malevolo, o sbriciolati dall’inesorabile
involversi del tempo. Mostra come già negli antichi miti, nelle
raffigurazioni pittoriche e scultoree, insieme all’apoteosi del bello - i
corpi desideranti oppure placati e calmi oppure già distrutti dal dolore e
poi ricomposti nella fissità della morte, la maestria degli artisti,
l’espressività del colore e della luce - si insinui lo sgomento profondo
delle creature gettate in un mondo che non ha mantenuto le sue promesse.
Mostra quanto forte urli la disperazione delle creature tradite da abbagli,
illusioni, chimere, da tutte le promesse impossibili da mantenere, dopo
l’effimera apoteosi della prima conquista d’amore. “Dall'azione congiunta e
opposta di entrambi (l'impulso di vita e quello di morte) scaturiscono i
fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte", così si sarebbe espresso
Freud nell’ Introduzione alla psicoanalisi anni dopo Fosca, l’ultima opera
sulla quale si sofferma la Santucci in questo libro, a conferma delle grandi
ed immortali verità contenute ed espresse da sempre nell’arte, nella
letteratura, nella musica. Ma entriamo più
nel dettaglio di questo saggio. Il primo capitolo racconta la storia di
Orfeo ed Euridice; a partire dal mito più antico, ma non solo. La storia dei
due sposi amanti viene narrata anche attraverso un excursus nelle arti
figurative, da Tiziano a Corot, da Poussin a Rubens, alla stupenda
plasticità di Canova. Parte del capitolo è dedicata alla Favola di Orfeo del
Poliziano, scritta, si tramanda, in soli due giorni, nel 1480, mentre il
poeta si trovava a Mantova presso il cardinale Francesco Gonzaga. Nel
Poliziano l’Orfeo è più canto che dolore, più fiaba che tragedia, ma anche
per lui valgono i due concetti fondanti del mito: il magico e suggestivo
potere - quasi ultraterreno - della poesia e della musica e, nello stesso
tempo, l’estrema fragilità, al limite dell’irrealtà, di tutto quanto poesia
e musica suscitano. L’amore fatale
di Tristano e Isotta costituisce l’argomento del secondo capitolo del libro.
L’autrice analizza anzitutto le due più antiche versioni, quella di Béroul e
quella di Tommaso d’Inghilterra, fatalista e ingenua la prima, “cortese” e
psicologicamente raffinata la seconda. Ricorda poi i versi di Maria di
Francia, nel Lai du Chèvrefeuille, e poi il Tristan di Gottfried von
Strassburg, quindi il Tristano riccardiano e gli echi e fortune letterarie
della vicenda dei due amanti narrati dai poeti della scuola siciliana prima,
presenti nel Novellino poi e, in tempi più recenti, nella musica di Wagner e
nella pittura di Dalì. L’amplissima influenza e la diffusione geografica a
largo spettro della vicenda di Tristano e Isotta in Europa avviene sempre
nell’ambito della visione del mondo, propria della cultura occidentale
tradizionale, secondo la quale l’amore impossibile, infelice, adultero e
nascosto è sempre legato ad una forte pulsione di morte e solo nella morte
trova il suo sbocco. Il più illustre sostenitore di questa teoria fu Denis
de Rougemont nella sua celebre opera L’amour et l’Occident , fin dalla prima
edizione del 1939. Coerentemente, dunque, nel capitolo terzo di questo
libro si tratta de “I versi della morte” dalla mitologia greca alle
raffigurazioni medievali della vecchia con la falce, alle danze macabre, al
chicco di grano dei Vangeli che dà frutto solo se muore, al terrore degli
abissi infernali, degli agguati demoniaci che apersero ampi spazi alla
dottrina della colpa e dell’indegnità insite nella natura umana e quindi al
timore della morte e del giudizio finale. Ma l’autrice ci parla anche degli
autori che cantarono la morte come grande giustiziera, colei che non
s’arresta dinanzi ai ricchi e ai potenti, che viene vista come momento di
riscatto e addirittura di speranza per gli oppressi. E come non ricordare,
allora, nel capitolo successivo, il quarto del libro, l’implacabile flagello
della peste, emblema per secoli del castigo divino, cieca furia scatenata su
interi popoli e Paesi? Perché, se la peste non è più presente in Europa fin
dall’Ottocento, grazie alle migliorate condizioni igieniche e di vita, forte
ne rimane la suggestione testimoniata da insigni opere storiche e
letterarie: Tucidide, Plutarco, Lucrezio, nell’antichità; ma come
dimenticare la peste dei Promessi sposi cieca livella su onesti e malvagi e,
già nel Novecento, Albert Camus? In quest’ultimo però la peste diviene
simbolo della “fragilità della condizione umana cui si può porre scampo solo
attraverso la solidarietà che unisce gli uomini”, ricorda la Santucci. Conclude quella
che potremmo definire “Trilogia della morte” il capitolo quinto,
approfonditamente dedicato alla trattazione della danza macabra, del suo
ossessivo, scandito, ripetuto “memento mori”. La diffusione di questo tema,
tra l’altro, è stata messa in relazione con la grande peste del 1348, che
infuriò in tutta Europa e che rese la morte un fenomeno quotidiano e fin
troppo familiare per la popolazione. La collocazione della trattazione della
danza macabra a questo punto del libro, subito dopo quella della peste,
appare dunque perfettamente coerente. Il capitolo
sesto ci riporta, con Pierre de Ronsard, il “principe dei poeti” di Francia,
alla poesia ed alla poesia d’amore: rose ornano i versi di Ronsard, dai più
teneri e romantici a quelli nostalgici e malinconici (“Comme on voit sur la
branche au mois de mai la rose”) e rose appunto colorano il sesto capitolo
del nostro libro, “Rose e Ronsard”. Si tratta di un canto in prosa sul fiore
e la sua storia, la sua simbologia, i suoi profumi, i suoi colori, la
fragilità dei suoi petali vivi e sensibili come carne: la rosa è un soggetto
poetico immortale, così come le poesie di Ronsard che la onorano e la
esaltano e che Francesca Santucci ci ripropone nella sua personale,
appassionata, traduzione. Ma c’è altro, nel capitolo, oltre ai fasti delle
rose, e sono gli ultimi versi di Ronsard vecchio e malato, sofferente e
presago di morte. Questo ci
riconduce ad un soggetto dolente: le catacombe del convento dei cappuccini
di Palermo, vasto cimitero sotterraneo che attira la curiosità di numerosi
turisti, e che fin dai secoli scorsi fu tappa obbligata del Grand Tour. Lo
spettacolo macabro dei numerosissimi cadaveri esposti è fortissimo monito -
ce ne fosse bisogno - a riflettere sulla caducità della vita, sulle vanità
terrene, e sull'inutilità dell'attaccamento degli uomini alla bellezza del
corpo, alle apparenze caduche. Segue un
interessante e documentatissimo capitolo sulla natura morta nella pittura:
non sembiante mummificato nel disperato e vano tentativo di sottrarre alla
corruzione della morte corpi e volti amati, ma oggetto vegetale ed animale
trasfigurato nell’arte, quindi, in qualche modo, sottratto all’usura del
tempo, divenuto immortale. Una particolare specie di natura morta in cui la
composizione allegorica suggerisce l'idea che l'esistenza è vuota, inutile,
la vita umana è precaria e di scarsa importanza, è detta vanità e ci
introduce al capitolo successivo intitolato, appunto, “vanitas vanitatum”,
come recita un noto versetto dell’Ecclesiaste. Juan de Valdès
Leal, il pittore sivigliano dei celebri Jeroglificos de la Muerte,
realizzati per l'Hospital de la Caridad della sua città - immagini
terribili, enfatiche e caricate dal peso di una passione violenta - è il
soggetto della trattazione del capitolo decimo. Lo conclude una riflessione
della Santucci sulla pittura di Valdès e sulla concezione della vita e della
morte propria del XVII secolo spagnolo: “La morte è presentata sotto due
aspetti, come fine e come principio; la morte annienta la vita, che appare
inutile, senza senza senso, con tutto il suo carico di futili vanità, ma, al
momento del giudizio, l’anima sarà valutata in base all’esistenza terrena
[…] In questo senso si comprende come sia le opere di Murillo che quelle di
Valdes Leal facessero parte di un unico grande progetto: attraverso il
programma iconografico indurre alla riflessione sulla brevità della vita e
sulla potenza della morte ed esaltare gli atti di carità, poiché solo
l’amore per il prossimo offre all’anima la salvezza eterna”. Lenore, la
protagonista dell’omonima ballata di Bürger, macabro ed inaudito esito di
una vicenda d’amore, è il soggetto della trattazione del capitolo seguente:
notturna vicenda di morte e di inganno, crudeltà del fato, orrore uguale a
quello delle raffigurazioni pittoriche nelle quali i corpi si decompongono,
gli scheletri s’incrinano, ogni speranza crolla. Come avviene in molti
quadri del Borromini al quale nel libro è dedicato l’ampio saggio che segue.br>E infine la
Fosca di Iginio Ugo Tarchetti. Giorgio, giovane militare legato alla bella
Clara, viene destinato a una monotona cittadina di provincia. Qui incontra
Fosca, donna di orribile magrezza, consunta da una non meglio identificata
malattia psicofisica. Da questo momento, l’immagine di Clara diviene sempre
più remota e Fosca entra sempre più prepotentemente nella mente del giovane
uomo. In questa vicenda di nuovo ed ancora il tema del legame amoroso viene
presentato attraverso elementi contrapposti: l’amore romantico, l’adulterio
che ingenera conflitto con le regole sociali, l’amore come malattia, morbo,
stato patologico associato alla sofferenza e alla morte. Lo afferma lo
stesso giovane amante: “Più che l’analisi di un affetto, che il racconto di
una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia.
Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. Fosca, infatti, incarna la
malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali. E dietro il
morbo si cela la morte: il suo corpo malato e sofferente, in qualche modo
già morto, coinvolge ed avvince Giorgio, così come il misterioso cavaliere,
con inganno d’amore, trascinò Lenore alla rovina. Con
quest’ultima vicenda e quest’ultimo autore, molto caro all’autrice, il
cerchio si chiude ed il libro, coerentemente, si conclude. Resta ancora da
dire che l’opera è corredata da una ricca bibliografia capace di offrire
ulteriori spunti di lettura e di approfondimento. E che si era aperta con
una interessante rarità: il sonetto Lo scheletro di Giovanni Canale, poeta
del XVII secolo, nato a Cava de’ Tirreni, città nella quale ancora si
conserva il palazzo della sua famiglia, ed attivo in diverse città italiane.
Ricordiamo,
infine, che l’amore è ed è stato il più alto tentativo dell’essere umano di
superare i limiti individuali attraverso la fusione reale o immaginaria con
un altro essere umano. Questo stato di perfetta fusione però non è infinito,
è estremamente fragile ed insidiato dal tempo, dalle contingenze, dal
destino, da quegli stessi limiti che esso cercava di superare. L’amore,
insomma, non è eterno e nemmeno incorruttibile. La morte soltanto forse lo
salva: non lo annienta, ma lo cristallizza al suo punto più alto,
impedendogli di corrompersi, di abbrutirsi, di degenerare. Come ci insegna
ancora il mito di Orfeo. Ovidio infatti nelle Metamorfosi commentò così il
secondo definitivo ritorno all’Ade di Euridice : “ Ed
Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe
infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata?” Francesca Santucci ci rivolge con questo libro l’invito a riflettere su temi
spesso rimossi dalla cultura e dai ritmi della vita odierni. Morte ed amore
infatti, contrariamente alle apparenze, vengono costantemente taciuti o
allontanati dall’esperienza e dalla riflessione quotidiana; vengono
spettacolarizzati, esibiti, strumentalizzati anche, ma sottratti alla
dimensione più profonda, quella dell’interiorità, della riflessione, della
rielaborazione affettiva, della necessaria scansione temporale,
dell’eternità sognata. Ritornare ai miti, soffermarsi su un quadro,
rileggere un verso possono restituirci qualcosa della dimensione profonda
dell’esistere, consolarci un poco della precarietà e brevità del nostro
tempo, della fragilità della nostra e altrui vita.
Eleonora
Bellini

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