Eleonora Bellini

FRATELLI A UN TEMPO STESSO,  AMORE E MORTE

presentazione del libro

Kimerik, ottobre 2011

 

 

 

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.

 

Così comincia il XXVII canto di Leopardi, che torna immediatamente alla memoria alla lettura del titolo e del sottotitolo di questo mirabile libro di Francesca Santucci: amore e morte nel tempo umano della storia e nel tempo immortale dell’arte e del mito, della poesia e del romanzo.
Da Orfeo ed Euridice ad Ugo e Fosca, l’autrice ripercorre le storie di amore distrutti da un destino avverso, dal caso malevolo, o sbriciolati dall’inesorabile involversi del tempo. Mostra come già negli antichi miti, nelle raffigurazioni pittoriche e scultoree, insieme all’apoteosi del bello - i corpi desideranti oppure placati e calmi oppure già distrutti dal dolore e poi ricomposti nella fissità della morte, la maestria degli artisti, l’espressività del colore e della luce - si insinui lo sgomento profondo delle creature gettate in un mondo che non ha mantenuto le sue promesse. Mostra quanto forte urli la disperazione delle creature tradite da abbagli, illusioni, chimere, da tutte le promesse impossibili da mantenere, dopo l’effimera apoteosi della prima conquista d’amore. “Dall'azione congiunta e opposta di entrambi (l'impulso di vita e quello di morte) scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte", così si sarebbe espresso Freud nell’ Introduzione alla psicoanalisi anni dopo Fosca, l’ultima opera sulla quale si sofferma la Santucci in questo libro, a conferma delle grandi ed immortali verità contenute ed espresse da sempre nell’arte, nella letteratura, nella musica.
Ma entriamo più nel dettaglio di questo saggio. Il primo capitolo racconta la storia di Orfeo ed Euridice; a partire dal mito più antico, ma non solo. La storia dei due sposi amanti viene narrata anche attraverso un excursus nelle arti figurative, da Tiziano a Corot, da Poussin a Rubens, alla stupenda plasticità di Canova. Parte del capitolo è dedicata alla Favola di Orfeo del Poliziano, scritta, si tramanda, in soli due giorni, nel 1480, mentre il poeta si trovava a Mantova presso il cardinale Francesco Gonzaga. Nel Poliziano l’Orfeo è più canto che dolore, più fiaba che tragedia, ma anche per lui valgono i due concetti fondanti del mito: il magico e suggestivo potere - quasi ultraterreno - della poesia e della musica e, nello stesso tempo, l’estrema fragilità, al limite dell’irrealtà, di tutto quanto poesia e musica suscitano.L’amore fatale di Tristano e Isotta costituisce l’argomento del secondo capitolo del libro. L’autrice analizza anzitutto le due più antiche versioni, quella di Béroul e quella di Tommaso d’Inghilterra, fatalista e ingenua la prima, “cortese” e psicologicamente raffinata la seconda. Ricorda poi i versi di Maria di Francia, nel Lai du Chèvrefeuille, e poi il Tristan di Gottfried von Strassburg, quindi il Tristano riccardiano e gli echi e fortune letterarie della vicenda dei due amanti narrati dai poeti della scuola siciliana prima, presenti nel Novellino poi e, in tempi più recenti, nella musica di Wagner e nella pittura di Dalì. L’amplissima influenza e la diffusione geografica a largo spettro della vicenda di Tristano e Isotta in Europa avviene sempre nell’ambito della visione del mondo, propria della cultura occidentale tradizionale, secondo la quale l’amore impossibile, infelice, adultero e nascosto è sempre legato ad una forte pulsione di morte e solo nella morte trova il suo sbocco. Il più illustre sostenitore di questa teoria fu Denis de Rougemont nella sua celebre opera L’amour et l’Occident , fin dalla prima edizione del 1939.  Coerentemente, dunque, nel capitolo terzo di questo libro si tratta de “I versi della morte” dalla mitologia greca alle raffigurazioni medievali della vecchia con la falce, alle danze macabre, al chicco di grano dei Vangeli che dà frutto solo se muore, al terrore degli abissi infernali, degli agguati demoniaci che apersero ampi spazi alla dottrina della colpa e dell’indegnità insite nella natura umana e quindi al timore della morte e del giudizio finale. Ma l’autrice ci parla anche degli autori che cantarono la morte come grande giustiziera, colei che non s’arresta dinanzi ai ricchi e ai potenti, che viene vista come momento di riscatto e addirittura di speranza per gli oppressi. E come non ricordare, allora, nel capitolo successivo, il quarto del libro, l’implacabile flagello della peste, emblema per secoli del castigo divino, cieca furia scatenata su interi popoli e Paesi? Perché, se la peste non è più presente in Europa fin dall’Ottocento, grazie alle migliorate condizioni igieniche e di vita, forte ne rimane la suggestione testimoniata da insigni opere storiche e letterarie: Tucidide, Plutarco, Lucrezio, nell’antichità; ma come dimenticare la peste dei Promessi sposi cieca livella su onesti e malvagi e, già nel Novecento, Albert Camus? In quest’ultimo però la peste diviene simbolo della “fragilità della condizione umana cui si può porre scampo solo attraverso la solidarietà che unisce gli uomini”, ricorda la Santucci.
Conclude quella che potremmo definire “Trilogia della morte” il capitolo quinto, approfonditamente dedicato alla trattazione della danza macabra, del suo ossessivo, scandito, ripetuto “memento mori”. La diffusione di questo tema, tra l’altro, è stata messa in relazione con la grande peste del 1348, che infuriò in tutta Europa e che rese la morte un fenomeno quotidiano e fin troppo familiare per la popolazione. La collocazione della trattazione della danza macabra a questo punto del libro, subito dopo quella della peste, appare dunque perfettamente coerente.
Il capitolo sesto ci riporta, con Pierre de Ronsard, il “principe dei poeti” di Francia, alla poesia ed alla poesia d’amore: rose ornano i versi di Ronsard, dai più teneri e romantici a quelli nostalgici e malinconici (“Comme on voit sur la branche au mois de mai la rose”) e rose appunto colorano il sesto capitolo del nostro libro, “Rose e Ronsard”. Si tratta di un canto in prosa sul fiore e la sua storia, la sua simbologia, i suoi profumi, i suoi colori, la fragilità dei suoi petali vivi e sensibili come carne: la rosa è un soggetto poetico immortale, così come le poesie di Ronsard che la onorano e la esaltano e che Francesca Santucci ci ripropone nella sua personale, appassionata, traduzione. Ma c’è altro, nel capitolo, oltre ai fasti delle rose, e sono gli ultimi versi di Ronsard vecchio e malato, sofferente e presago di morte.
Questo ci riconduce ad un soggetto dolente: le catacombe del convento dei cappuccini di Palermo, vasto cimitero sotterraneo che attira la curiosità di numerosi turisti, e che fin dai secoli scorsi fu tappa obbligata del Grand Tour. Lo spettacolo macabro dei numerosissimi cadaveri esposti è fortissimo monito - ce ne fosse bisogno - a riflettere sulla caducità della vita, sulle vanità terrene, e sull'inutilità dell'attaccamento degli uomini alla bellezza del corpo, alle apparenze caduche.
Segue un interessante e documentatissimo capitolo sulla natura morta nella pittura: non sembiante mummificato nel disperato e vano tentativo di sottrarre alla corruzione della morte corpi e volti amati, ma oggetto vegetale ed animale trasfigurato nell’arte, quindi, in qualche modo, sottratto all’usura del tempo, divenuto immortale. Una particolare specie di natura morta in cui la composizione allegorica suggerisce l'idea che l'esistenza è vuota, inutile, la vita umana è precaria e di scarsa importanza, è detta vanità e ci introduce al capitolo successivo intitolato, appunto, “vanitas vanitatum”, come recita un noto versetto dell’Ecclesiaste.
Juan de Valdès Leal, il pittore sivigliano dei celebri Jeroglificos de la Muerte, realizzati per l'Hospital de la Caridad della sua città - immagini terribili, enfatiche e caricate dal peso di una passione violenta - è il soggetto della trattazione del capitolo decimo. Lo conclude una riflessione della Santucci sulla pittura di Valdès e sulla concezione della vita e della morte propria del XVII secolo spagnolo:  “La morte è presentata sotto due aspetti, come fine e come principio; la morte annienta la vita, che appare inutile, senza senza senso, con tutto il suo carico di futili vanità, ma, al momento del giudizio, l’anima sarà valutata in base all’esistenza terrena […] In questo senso si comprende come sia le opere di Murillo che quelle di Valdes Leal facessero parte di un unico grande progetto: attraverso il programma iconografico indurre alla riflessione sulla brevità della vita e sulla potenza della morte ed esaltare gli atti di carità, poiché solo l’amore per il prossimo offre all’anima la salvezza eterna”.
Lenore, la protagonista dell’omonima ballata di Bürger, macabro ed inaudito esito di una vicenda d’amore, è il soggetto della trattazione del capitolo seguente: notturna vicenda di morte e di inganno, crudeltà del fato, orrore uguale a quello delle raffigurazioni pittoriche nelle quali i corpi si decompongono, gli scheletri s’incrinano, ogni speranza crolla. Come avviene in molti quadri del Borromini al quale nel libro è dedicato l’ampio saggio che segue.br>E infine la Fosca di Iginio Ugo Tarchetti. Giorgio, giovane militare legato alla bella Clara, viene destinato a una monotona cittadina di provincia. Qui incontra Fosca, donna di orribile magrezza, consunta da una non meglio identificata malattia psicofisica. Da questo momento, l’immagine di Clara diviene sempre più remota e Fosca entra sempre più prepotentemente nella mente del giovane uomo. In questa vicenda di nuovo ed ancora il tema del legame amoroso viene presentato attraverso elementi contrapposti: l’amore romantico, l’adulterio che ingenera conflitto con le regole sociali, l’amore come malattia, morbo, stato patologico associato alla sofferenza e alla morte. Lo afferma lo stesso giovane amante: “Più che l’analisi di un affetto, che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. Fosca, infatti, incarna la malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali. E dietro il morbo si cela la morte: il suo corpo malato e sofferente, in qualche modo già morto, coinvolge ed avvince Giorgio, così come il misterioso cavaliere, con inganno d’amore, trascinò Lenore alla rovina.
Con quest’ultima vicenda e quest’ultimo autore, molto caro all’autrice, il cerchio si chiude ed il libro, coerentemente, si conclude. Resta ancora da dire che l’opera è corredata da una ricca bibliografia capace di offrire ulteriori spunti di lettura e di approfondimento. E che si era aperta con una interessante rarità: il sonetto Lo scheletro  di Giovanni Canale, poeta del XVII secolo, nato a Cava de’ Tirreni, città nella quale ancora si conserva il palazzo della sua famiglia, ed attivo in diverse città italiane.
Ricordiamo, infine, che l’amore è ed è stato il più alto tentativo dell’essere umano di superare i limiti individuali attraverso la fusione reale o immaginaria con un altro essere umano. Questo stato di perfetta fusione però non è infinito, è estremamente fragile ed insidiato dal tempo, dalle contingenze, dal destino, da quegli stessi limiti che esso cercava di superare. L’amore, insomma, non è eterno e nemmeno incorruttibile. La morte soltanto forse lo salva: non lo annienta, ma lo cristallizza al suo punto più alto, impedendogli di corrompersi, di abbrutirsi, di degenerare. Come ci insegna ancora il mito di Orfeo. Ovidio infatti nelle Metamorfosi commentò così il secondo definitivo ritorno all’Ade di Euridice : “
Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata?”
Francesca Santucci ci rivolge con questo libro l’invito a riflettere su temi spesso rimossi dalla cultura e dai ritmi della vita odierni. Morte ed amore infatti, contrariamente alle apparenze, vengono costantemente taciuti o allontanati dall’esperienza e dalla riflessione quotidiana; vengono spettacolarizzati, esibiti, strumentalizzati anche, ma sottratti alla dimensione più profonda, quella dell’interiorità, della riflessione, della rielaborazione affettiva, della necessaria scansione temporale, dell’eternità sognata. Ritornare ai miti, soffermarsi su un quadro, rileggere un verso possono restituirci qualcosa della dimensione profonda dell’esistere, consolarci un poco della precarietà e brevità del nostro tempo,  della fragilità della nostra  e altrui vita.

Eleonora Bellini 

                                                                       

@
 

 

Back