Bruno Brillante

 

LAHALLE

 

 

(AA.VV., "I quartieri di Napoli",  Rudis Edizioni  2023 )

 Salone del Libro di Napoli 2023

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Via  Carlo  Francesco Lahalle è una strada di Napoli intitolata allo sventurato colonnello che, combattuto fra dovere e coscienza, la subordinazione e l’insubordinazione, non volendo né obbedire né disobbedire agli ordini del re borbone, scelse la morte sparandosi un colpo di pistola.
C’era una birreria, di quelle che si vedono nei film in bianco e nero, con le sedie di canna e i dondoli con comodi cuscini bianchi. Nelle sere d’estate la gente del quartiere sì ritrovava per godere il fresco in compagnia. In quegli anni la televisione terminava i programmi dell’unico canale abbastanza presto  e la gente usciva volentieri per strada, soprattutto nella bella stagione.
Sedie, dondoli e tavolini occupavano buona parte del marciapiede, le auto erano ancora poche sulla strada, e alle ventidue e zero cinque passava sferragliando l’ultimo trenino della ferrovia Alifana che, poco dopo i ponti dell’Arenaccia, si arrampicava su per una curva, sino a raggiungere il deposito sulla Doganella.
Il  salone interno della birreria era enorme, alto e luminoso. Il barista era esoftalmico, sempre sudato  e trafelato, perennemente indossava una camicia bianca a mezze maniche d’estate e d‘inverno correva da un tavolo all’altro e da questi al bancone, dove lo aspettavano clienti assetati di birra, che lui serviva in grandi boccali traboccanti di schiuma.
Il pioppo maestoso all’interno della segheria di via Lahalle, apparteneva al fiume, al Sebeto, che passava in quei pressi. L’antico e fiero albero apparteneva al fiume e resisteva in quei luoghi stravolti da un insensato sviluppo, a ricordare le acque che, profonde, continuavano a nutrirlo.
Il Sebeto, offeso e ricacciato nelle profondità di asfalto e cemento e oppresso dalle costruzioni, continuava a scorrere, cercando il mare, nonostante tutto.
In primavera, nel periodo della fioritura, per un paio di settimane, il grande albero liberava dei bianchi piumini che volavano per le strade, ricoprendo i tetti delle auto e posandosi sui capelli dei passanti, spesso inconsapevoli spettatori di quel fenomeno.
La birreria, la segheria, le strade, i palazzi e le poche botteghe facevano parte di un quartiere che non si sarebbe potuto definire periferia ma nemmeno centro, in realtà era un quartiere che confinava con dei “vuoti”, con dei limina che si continuavano con periferie che, a loro volta, erano separate da altrettanti “vuoti” dai primi paesi della provincia. Infatti, la summenzionata “ Doganella” prendeva il nome dal ricordo di una barriera daziaria, una piccola dogana appunto, posta al limitare di un quartiere periferico che, in tempi remoti, godeva di una propria  autonomia amministrativa, al confine con il vasto altopiano di Capodichino, strada obbligata per chi proveniva dai comuni a nord di Napoli.
Presso la vicina, più centrale, Porta Capuana, sorgeva la stazione terminale di tutte le corriere che collegavano la città con i comuni della provincia, soprattutto quelli della parte settentrionale. A oriente e a occidente due grandi strade, a tratti, di campagna, delimitavano l’abitato, ed erano vissute come barriere immaginarie, oltre le quali potevano celarsi terre sconosciute, misteriose, territori inesplorati  ricchi di fascino, di pericolo e di trasgressione.
Il Corso Malta si continuava sino al Corso Meridionale, dove terminava. Entrambe erano strade di confine, ambedue erano una strana combinazione di campagna e città. Esse segnavano il limite immaginario oltre il quale finiva la zona di conforto, finivano le strade sicure con negozi e palazzi noti. A mano a mano che si procedeva verso il Corso Malta, i palazzi cedevano il passo a caserme e ad altri edifici militari. Ai portoni e ai negozi si sostituivano lunghi muri oltre i quali rari varchi lasciavano intravedere i cortili delle caserme.
Il Corso Meridionale era una lunga strada senza niente. Da un lato alberi e cespugli facevano da confine ai binari morti della ferrovia.
Altri alberi e cespugli, invece, dal lato opposto della strada, erano l’estremo limite a quello che restava delle paludi napoletane.
Un odore intenso di foglie in alcune stagioni caratterizzava quella strada.
C’erano anche altri spazi “di confine”, “ Luoghi inabitati, ermi e selvaggi” verrebbe da dire,  parafrasando l’Ariosto, ed esagerando la “ selvaticità” di quelli che erano  luoghi abbandonati, poco frequentati e, spesso, degradati, ma pur sempre spazi che era meglio non frequentare, soprattutto quando imbruniva e, preferibilmente, non da soli.Oltre questi “ vuoti”, strade alberate che, quando calavano le ombre della sera, divenivano cupe e malfrequentate, c’era un quartiere, rione Luzzatti, divenuto famoso in anni recenti grazie alla fortuna letteraria di un romanzo e della relativa serie “cinematografico-televisiva”, isolato dalla città, in anni più remoti addirittura diviso da una sorta di lago/pantano, sul quale un servizio di traghettamento con zattere garantiva, in alcuni  periodi dell’anno , i collegamenti del Rione Luzzati con il resto della città.
C’era anche lo stadio di calcio “Ascarelli”, dove la squadra del Napoli muoveva i primi passi della sua lunga storia.

 

 

 

 

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