Al di là
dell'esigenza di fornire – come ha fatto egregiamente – una
panoramica piuttosto esaustiva della produzione letteraria
femminile, aveva scelto le autrici che più le erano congeniali …
tanto che, riprendendo una mia semplificazione verbale, parlando
dell'argomento Francesca si riferisce familiarmente al corpus
antologizzato come a "le mie poetesse", dove quel "mie" la dice
lunga sulla comunità di sentire …» (p. 6) Un
cattivante libricino, insomma – che già il poeta-filosofo Gianmario
Lucini definisce «prezioso soprattutto per i riferimenti ad alcune
scrittrici dell'antichità, delle quali pochissimo è rimasto e anche
quel poco sconosciuto. Un lavoro dunque, anche questo, di notevole
impegno anche soltanto per la raccolta del materiale da commentare e
presentare» Di fatto,
come chiarisce il sottotitolo (Letteratura femminile: selezione di
autrici dalle origini al '900), pur nella dovizie di citazioni[4]
solo un numero ristretto di muliebri voci ricevono ascolto. Una scelta
di estremo interesse per altro – e in più, di assai piacevole
lettura. Tutte presenze autorevoli, con le quali Santucci (con)vive
in privilegiata sintonia (vorrei dire, sympatheia) e delle quali
ciascuna – assicura sempre Francesca – «mi ha insegnato qualcosa, a
tutte le loro vicende personali mi sono appassionata e tutte le ho
amate, perché dietro ogni verso, ogni rigo, ogni sola parola, ho
trovato celati un dolore, una lacrima, una sofferenza,
un'insofferenza, una protesta, un'inquietudine, una disperazione, un
grido di solitudine, un canto d'amore» (p. 9). Ecco,
dunque, la vera chiave di lettura della raccolta santucciana: è
voluta e scritta con il cuore Si sprigiona infatti dalla scrittura
di Santucci una sorta di musica tenue quanto penetrante. Tinte
fragili e suadenti incromano la trama delle parole. Un giuoco
sottile, avvolgente rinnova fasti antichi, lusinghe di un passato
lontano eppur contiguo e cogente, di continuo sotteso, ripensato,
rivis(su)to. Sprazzi talora abbaglianti di luce che in egual misura
(passione?) investono – così da rivelarne le intime peculiarità (e
le essenziali coordinate biografiche) – tutte le donne presentate:
ovvero «scrittrici e poetesse, cortigiane e nobildonne, ascete e
dame, timide e fragili, trionfanti e pioniere, liriche, elegiache,
struggenti, appassionate, impegnate, languide e decadenti, autrici
autorevoli, ma anche minori strappate all'oblio, che, in varietà di
stili, temi e contenuti, hanno saputo imporre o sussurrare la loro
voce la cui eco ci arriva dal passato con immutato fascino» (p. 8). Ventinove[6]
maliose voci, quindi. Dall'immortale Saffo («amante del bello,
raffinata ed elegante nei modi e nell'aspetto» – che «amò molto» e
il cui «amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante»,
p. 14 all'anonimo – e tuttavia connotato al femminile – Pervigilium
Veneris che tramanda l'Anthologia Latina) alla Contessa Lara; dalle
elleniche Erinna, Anite, Nosside (attive tra IV e III secolo a. C.)
alle novecentesche Paola Masino, Lalla Romano, Sylvia Plath; da
Christine de Pizan (tardomedievale professionista di copiatura e –
quel che più conta – scrittura) a Emily Elizabeth Dickinson a Flor
Bela D'Alma da Conceiçao Lobo Espanca (anticipatrice, grazie
all'acume irriguardoso e prepotente, del movimento femminista in
Portogallo) ad altre illustri presenze[7].
Per non parlare, naturalmente, della diletta Jane Austen,
dell'adorata Elizabeth Barrett Browning, delle altrettanto amate
Charlotte, Emily, Anne[8]
Brontë (Emily, in particolare)[9]
– «miracolosa triade poetica» dal fascino «impareggiabile ed
irripetibile» (p. 84)[10].
Così, proprio per le maggiori autrici inglesi – Jane, Elizabeth,
Emily – Santucci sa trovare espressioni forse le più intense e
convincenti. Austen
infatti, nelle sue parole, è «mito della letteratura inglese,
scrittrice dall'elegante stile narrativo, che, con intelligenza,
grazia, arguzia, e spregiudicata ironia tipicamente britannica,
seppe mettere in ridicolo i costumi della società del tempo.
Osannata e denigrata, accusata dai detrattori di aver imbrigliato
nel perbenismo il romanzo inglese, considerata da amici e parenti
come una zitella inaridita a caccia di marito, la più carina, la più
sciocca, la più affettata farfalla in cerca di marito che io abbia
mai conosciuta, giudicata, invece, da Virginia Woolf, la più
perfetta artista tra le donne per l'immortalità dei suoi libri, e
definita da G. H. Lewes Sorella minore di Shakespeare, per l'enorme
ricchezza di personaggi che la sua fantasia seppe elaborare, Jane,
attingendo dall'esperienza personale, ambientò i suoi libri nel
piccolo mondo della nobiltà di campagna e della borghesia di
provincia, ritraendo, sempre dal punto di vista femminile,
personaggi che ben conosceva e dei quali coglieva sia il profilo
psicologico che il comportamento sociale» (p. 73). Quanto a
Barrett (1806-1861) – alla morte di William Wordsworth (1850)
prescelta quale voce ufficiale d'Inghilterra – Santucci richiama
anzi tutto l'ammirata dichiarazione del futuro sposo: «I love your
verses with all my heart, dear miss Barrett … Era il 10 gennaio del
1845 quando il poeta Robert Browning scrisse la prima ardente
lettera, nella quale dichiarava tutta la sua ammirazione, ad
Elizabeth Barrett, la poetessa inglese definita in patria la
Shakespeare al femminile. Cominciò così la loro romantica storia
d'amore, che sembra uscire direttamente dalle pagine di un romanzo
ottocentesco, con la corrispondenza durata un anno, l'opposizione
del padre ostile e severo, il matrimonio celebrato segretamente, la
fuga in Italia, la nascita del figlio» (p. 77). Un evento decisivo,
il matrimonio, per Elizabeth. La quale, in precedenza, pur non
abbandonando mai la scrittura viveva «sotto la tirannia paterna, in
una strana dimora fiabesca, fra pareti silenziose, in una stanza
buia dalle imposte ben serrate, tra medicine e libri impolverati[11],
sostenuta nelle sue lunghe convalescenze unicamente
dall'appassionato bisogno di leggere e studiare, approfondendo
soprattutto lo studio dei grandi tragici greci[12],
in particolare Euripide (Il nostro Euripide, l'umano, dalle vive e
calde lacrime, che se tratta di cose comuni, le inalza fino alle
sfere!), che poi confluì nello splendido saggio I poeti greci
cristiani, curiosamente incoraggiato e consentito dall'austero
padre, e con la sola compagnia dell'inseparabile cagnolino Flush»
(p. 78)[13].
Ecco allora perché la lettera di Browning fu «come un raggio di luce
in quella casa tetra, in quella stanza buia, in quel cuore avvezzo
all'ombra e alla solitudine: la passione s'innescò e brillò fino ad
esplodere, e così la poetessa ammalata, famosa eppure chiusa nel
cerchio del suo isolamento, uscì alla luce e assaporò la felicità
inattesa ed improvvisa» (p. 79). Coerente,
quindi, con le esperienze di vita pure la cifra poetica barrettiana,
con precisione allumata da Santucci: «Con un linguaggio colto eppure
semplice, che ben coniuga eleganza e raffinatezza, in preziosa
alchimia di classicità e suggestioni romantiche, i versi di
Elizabeth, estremamente musicali anche a scapito delle regole
metriche, esprimono al meglio ancora oggi l'immaginario femminile,
riuscendo a trasmettere con intatta efficacia l'amore che sbocciò
nel suo cuore oppresso dalla lunga solitudine e i desideri che
pulsano nei cuori delle donne» (pp. 81-82). Per quanto
concerne, poi, Emily Brontë (1818-1848) – «l'autrice più
interessante ed inquietante della narrativa inglese dell'Ottocento»
(p. 88) – nelle parole della sorella Charlotte (riferite da Santucci)[14]
«non ebbe per natura un'indole socievole, le circostanze favorirono
e alimentarono un'inclinazione alla solitudine: tranne che per
andare in chiesa o per fare una passeggiata sulle colline, ella
raramente varcava la soglia di casa … quanto la sua mente
raccoglieva della realtà che le toccava, si riduceva troppo
esclusivamente a quei tragici e terribili caratteri di cui la
memoria … è costretta a recare l'impronta. La sua fantasia, che era
più tenebrosa che solare, più vigorosa che giocosa, trovò in quei
caratteri il materiale da cui trasse creature come Heathcliff, come
Earnshaw, come Catherine …» (p. 87). Di fatto, e
lo ribadisce Francesca, non si può comprendere a fondo il notissimo
romanzo di Emily (Wuthering Heights)[15]
«se non si conosce la vita della scrittrice, la sua incapacità di
affrontare il mondo, il profondo affetto che la legava alla casa,
alla famiglia, al cane Keeper, alla vita solitaria, l'appassionato
attaccamento alla brughiera laddove, fra i campi di eriche, soffiava
quel crudele vento dell'est che non poco influiva sui polmoni e sul
sistema nervoso delle sorelle Brontë e, soprattutto, l'amore per la
scrittura. Fin da piccola Emily, alta, dagli occhi grigi azzurri ed
i capelli rossi, femminilmente fragile eppure a tratti mascolina,
era stata timida e ritrosa, ma negli ultimi anni della sua vita si
produsse un mutamento, per cui si differenziò dalla se stessa di
prima ed il suo comportamento divenne simile a quello dei personaggi
descritti nel romanzo, forse per l'acquisita consapevolezza di sé,
del suo talento, delle sue idee. Cominciò così a staccarsi sempre
più dal modo precedente di essere, ad affermarsi, a far valere anche
in famiglia la sua personalità, esprimendo in ciò l'atteggiamento
tipico dei poeti romantici, che tendevano a tradurre le teorie dei
loro scritti in comportamento personale. Sempre secondo le parole di
Charlotte, addirittura nell'ultimo anno di vita Emily era divenuta
sprezzante, sdegnosa, inflessibile, quasi sovrumana, incurante della
sua salute, incupita dalla malattia fatale, la tisi, che la stava
conducendo verso la tomba, ma non piegata dal pensiero della morte
imminente, che quasi cercò, esponendosi al freddo al funerale del
fratello, rifiutando poi ostinatamente di curarsi, ed infine
abbandonandosi al male con voluttà» (pp. 87-88). Puntuale e
perspicua, allora, la delineazione santucciana di tante eccelse
figure – come del resto suggestiva e convincente risulta la sua
analisi delle altre voci, in particolare di talune (magari meno
frequentate) poete del secolo XII, quali: Maria di Francia – che «si
distingue per la delicatezza e la grazia con le quali descrive i
sentimenti di donne infelici per amore, in uno spazio sospeso tra
favola e leggenda, e il suo mondo è quello incantato della materia
di Bretagna; la realtà trascolora, senza sforzo, in sortilegio
magico, i contorni delle cose sfumano e palpitano sotto l'urgenza di
una carica interiore di fantasia e di incantesimo» (pp. 32-33);
ovvero Beatrice contessa di Dia – nella cui produzione, strettamente
legata ai modi e ai temi dell'amor cortese, «vibra tuttavia un forte
senso di autenticità, l'espressione del sentimento si libera della
ricerca esasperata comune ai trovatori del tempo, e, in espressione
limpida e chiara, priva di oscurità, trasmette con grande
spontaneità il tenace amore, lo smarrimento, il dolore e lo stupore
per l'amore perduto» (p. 38); o, ancora, Compiuta Donzell – della
quale il sonetto richiamato da Francesca (A la stagion che 'l mondo
foglia e fiora) «di linea elegante e di rara intimità, memorabile
per l'incipit folgorante, che delinea una delicata figura di giovane
sensibile e romantica, sembra scaturire direttamente dal repertorio
popolare dei contrasti e delle malmaritate. Sviluppa, infatti, il
lamento di una ragazza che, forzatamente promessa sposa dal padre,
in dissonanza tra il bel tempo e il tormento soggettivo, si sente
incapace di condividere le gioie primaverili» (p. 41). In aggiunta
a ciò, felicità e pertinenza di accenti Santucci inviene nel
presentare una delle più illustri e cólte donne del Rinascimento,
amata e riconosciuta dal sommo Michelangelo – Vittoria Colonna
(1492-1547). La quale, rimasta presto vedova di Francesco Ferrante
d'Avalos, marchese di Pescara e capitano generale delle truppe
imperiali di Carlo V, proprio durante la vedovanza «divenne il
simbolo dello spiritualismo cinquecentesco; compendiando in sé fede
cattolica e filosofia platonica, partecipe delle inquietudini
religiose e dell'esigenza di riforma e restaurazione morale della
Chiesa dell'epoca, si dedicò ad un'intensa vita intellettuale, ma
anche al culto della memoria del marito» (p. 51). Ovvero nel
commuoversi sulla tragica vicenda «breve e infelicissima, legata a
storie di sangue e di barbarie» (p. 54) di Isabella Morra
(1520-1546), «chiusa nella solitudine del denigrato sito, il
castello paterno, collocato a picco sul mare, sull'infelice lito»
(p. 54) e uccisa giovanissima dai fratelli per una presunta
relazione clandestina: «Della sua produzione, rivalutata da
Benedetto Croce che ne riconobbe il valore di Poesia immortale,
restano miracolosamente un esile canzoniere, le Rime, 13
componimenti, 10 sonetti e 3 canzoni, che rappresentano l'impetuosa
autobiografia e rivelano la sua indole malinconica e appassionata,
ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura.
Dimostrando di aver ben assimilato la lezione del Petrarca,
considerato sommo maestro da tutti i lirici cinquecenteschi, per
Isabella, definita la Saffo lucana, il petrarchismo resta solo un
vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni
tassiane e leopardiane, con la trasfigurazione lirica del paesaggio,
che diventa partecipe dei suoi stati d'animo, e la tragicità e la
potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento» (p. 55).
Oppure, ancora, nel compiangere la contrastata quanto discussa
esistenza di Gaspara Stampa (1523-1554): «La sua breve vita di donna
libera e spregiudicata trascorse, dunque, intensa, tra amori fugaci
e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d'amore,
poi troncata dall'amante, che dal 1548 al 1551 la legò al conte
Collaltino di Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte
andò in Francia al servizio del re e poi l'abbandonò» (p. 59). E
tuttavia, «nell'artefatto petrarchismo del tempo», Stampa si
distingue per una «sincerità nuova che vince ogni retorica e la
spinge a rivelare un mondo interiore femminile, mai confessato prima
con tanto coraggio; lampi di desiderio e di passione, colloqui
ardenti, soliloqui disperati, abbandono di se stessa alla febbre
della passione, illuminazione per una gioia inaspettata,
implorazione e abbattimento, struggimento: nelle Rime troviamo
espresso tutto il sentimento che squassò la sua anima fino a
lasciarle il vuoto, che cercò di colmare rivolgendosi a Dio, ma ogni
fibra del suo essere era ancora protesa verso il dolce signore,
padrone del suo cuore. Di particolare interesse, poi, i componimenti
nei quali rivendica la propria autonomia di scrittrice, il diritto
ad avere una propria libertà d'espressione e di sofferenza per
amore, sfida insieme alla società e al destino. Essempio infelice
del suo sesso si riconosce la Stampa, ma, insieme, non può impedirsi
di vivere in foco, di vivere ardendo e non sentire il male,
sconsigliando, però, nel contempo le altre donne dal comportarsi
come lei» (p. 62). O, più oltre, nell'esaltare le glorie di Emily
Dickinson, «poetessa tra le più grandi dell'Ottocento americano e,
con Saffo, probabilmente la più grande mai esistita» (p. 91) – la
quale, «sola al centro di un mistero, il Mistero, con i sensi
affinati e potenziati, con la vista, con l'udito, col tatto, ne
coglieva i segnali: la luce particolare di un pomeriggio d'inverno,
la linea di uno stelo, un pettirosso tra i rami, il bisbiglio
dell'ape, l'arcobaleno multicolore contro il cielo d'un tenero
azzurro. E scriveva, scriveva; seduta dietro al suo scrittoio
componeva versi enigmatici, allusivi, sfuggenti, a tratti oscuri,
versi sulla solitudine, sull'amore, sulla morte, sulla natura,
descrivendo boschi, ruscelli, uccelli, prati, talvolta anche
elementi mai visti nella realtà, come molti degli animali e dei
fiori che conosceva solo attraverso le illustrazioni dei suoi libri»
(p. 92). Ovvero, da ultimo, nel partecipare al dramma di Sylvia
Plath, bostoniana, «simbolo delle battaglie femministe negli anni
'60» (p. 124), che – sopra tutto nel romanzo The Bell Jar (La
campana di vetro, pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria
Lewis) – esprime il «disperato bisogno di affermazione di una donna
lacerata dal conflitto irrisolto tra le ispirazioni personali ed il
ruolo imposto dalla società. Sylvia non era "matta", era solo una
donna fragile, sensibile e in crisi, che aveva tentato di seppellire
l'ansia di libertà e la vocazione di scrittrice in un matrimonio
apparentemente felice; infatti, non rifiutò mai il suo ruolo, tentò
fino alla fine di conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno
faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi figli, alla notte
rubava qualche ora per scrivere, cercando di soffocare il proprio
istinto di ribellione che riversava solo nelle poesie e che cercava
poi di farsi perdonare comportandosi da figlia, moglie e madre
esemplare: … non è vero quello che scrivo, sono buona, sono felice,
rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto tutto quello che
una donna deve fare … Infine, però, le aspirazioni a lungo represse
riemersero con prepotenza, e le costarono la fine del legame
matrimoniale, la solitudine e la morte. Torturata dalla sua ansia di
vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di
moglie e di madre, lacerata dal conflitto dell'essere per sé e
dell'essere per gli altri, Sylvia lasciò un'infinità di poesie
violente e disperate ed un unico elemento di disordine nella cucina
del suo appartamento: il suo corpo senza vita» (p. 125). Cotali,
insomma, e numerosi altri, i fascinosi ritratti santucciani – che la
brevità del presente lavoro impedisce di richiamare con minor
avarizia. D'identica maniera infatti – con continua, vibrante
partecipazione – si compie la sua informata disamina: ed è questo
tra i principali motivi che fanno del libro un generoso, caldo,
entusiastico omaggio offerto alla letteratura femminile. Un omaggio,
inutile dirlo, tutto da leggere e (malgrado una certa sciatteria
editoriale) vivamente apprezzare.
(Letizia
Lanza, antichista)
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