(dall’antologia del premio letterario “Nenzi Costanzo”

“Il risveglio delle I-Dee”

Edizioni Akkuaria, maggio 2008)

 

Francesca Santucci

Elisabetta amava un pupo

 

 

Elisabetta amava tanto il suo pupo, lo aveva chiamato Ruggiero: era bellissimo!
No, Ruggiero non era un bambino, era proprio un “pupo”, non una marionetta o un burattino, la marionetta, si sa, si muove solo grazie a dei fili, e il burattino, animato dal basso, si muove grazie alle dita della mano, pollice, indice, medio; Ruggiero, da vero pupo, era guidato dall'alto, con, al posto dei fili, due sottili aste di metallo che gli consentivano, azionando testa e braccio, quasi di prender vera vita, scattando impettito e fiero.
E Ruggiero era un pupo dal volto brunito, gli occhi lunghi e neri, i capelli folti e morbidi, i baffi spioventi color dell’ala di corvo, l’espressione guerriera, in testa calzava un cappello con pennacchio, indossava calzoncini a zuava di velluto blu a coste, alti stivaloni di metallo, una magnificente corazza, ed un’armatura di ottone scintillante arricchita da cesellature, sbalzi ed arabeschi; nella destra brandiva la spada sguainata in gesto bellicoso, con la sinistra reggeva lo scudo.
Ruggiero era un pupo armato, un cavaliere pagano, non nobile, conte o duca, ma ugualmente alto aveva il senso dell’onore, lottava per la giustizia, per la fede e per l’amore, queste le sue virtù: lealtà, forza, disprezzo del pericolo.
Sì, il suo volto era di legno, era privo di voce, in petto non gli batteva un cuore, però Elisabetta lo percepiva viva presenza, quasi lo sentiva palpitare.
Elisabetta amava il suo pupo perché era un dono prezioso, le ricordava l’antico innamorato, che glielo aveva offerto come pegno d’amore. Lui le cantava sempre le canzoni della sua terra (soprattutto quel bel canto popolare, canto di morte, in cui il teschio si rammarica d’esser stato sepolto senza un tocco di campana) e, cuore gentile, mai la chiamava per nome, ma solo giuiuzza bedda e ducizza fina.
- Serbalo, abbine cura, aspettami, ritornerò!- le aveva detto porgendole il pupo.
Elisabetta subito lo aveva stretto al suo petto, e si era affrettata a promettere:
-Ne avrò cura. Ti aspetterò!-
Intanto che attendeva, aveva dato un nome al suo omino di legno, lo aveva battezzato Ruggiero, come il suo uomo di carne, e come il paladino di Francia allevato dal mago Atlante, che gli aveva fatto un incantesimo per tenerlo lontano dall’amore, ma poi l’incantesimo era stato rotto dalla valorosa Bradamante, invaghitasi di lui.

II

… Oggi pioveva, d’una pioggia silenziosa, lenta: ormai moriva l’estate, ai suoi morbidi languori andava sostituendosi una profonda stanchezza. Stringendo contro il cuore il suo Ruggiero, Elisabetta si percepiva simile ad una rosa disfatta dall’appassimento, sentiva che i colori sbiadivano insieme agli ultimi calori.
L’estate finiva, si stava consumando, sciogliendo, dissolvendo, le stava scivolando fra le dita, ed insieme andava consumandosi anche il suo tempo: ormai, senza il suo uomo di carne, anche se aveva il suo omino di legno, moriva.
Con il suo innamorato aveva persino contratto il patto d’amore, e lungamente aveva tenuto fede a quel patto, autentico, reale, di sangue, stipulato in un momento di esaltazione, bucando con lo spillo le dita delle mani, spingendole tutte l’una contro quelle dell’altro; dopo lui aveva estratto da un astuccio di velluto blu un maestoso anello, con degli strani intrecci nelle tre varietà dell’oro, giallo, bianco, rosso, lo aveva baciato e, con espressione solenne, infilato al suo anulare.
Ricordava bene che era stato, quello, un giorno di raro scirocco, che in lei s’era abbattuta una profonda debolezza, che le aveva reso faticoso creare collegamenti fra gli eventi perché sentiva affannata la mente, ma l’astenia era anche congiunta al dubbio che, come una febbre, la divorava … era l’amore quello, era l’amore?... insieme all’assoluta certezza… sì, era quello l’Amore!
Il rito era stato sancito da un lungo bacio di passione, goloso, vorace, simile ad un risucchio, un vortice, un gorgo, che sembrava non dover avere mai fine, poi avevano bevuto alla stessa coppa del vino rosso sangue e, con aria grave, guardandola ben dritta negli occhi, lui aveva affermato:
-Ora siamo della stessa natura, siamo dello stesso sangue, vita natural durante legati dalla fedeltà, solo la morte estinguerà questo fra noi.-
Ed avevano consumato l’amore in profondo trasporto; fra loro era stato come una lunga danza, come gli accoppiamenti di certi strani uccelli che paiono descrivere magici cerchi nell’aria quando praticano il rito. Infine, intanto che la violetta esalava tiepida l’ultimo profumo e, fragrante, s’annunciava quello della rosa, c’era stato l’ultimo saluto.
Lui, donandole il pupo, aveva ordinato e assicurato:
-Serbalo, aspettami, ritornerò!- ma non era più tornato.
Elisabetta, stringendo il suo dono, aveva promesso:
-Ne avrò cura. Ti aspetterò!- ed aveva aspettato.
Amorevolmente aveva curato il suo pupo, lisciando con le dita i bei capelli morbidi, lucidando periodicamente corazza ed armatura, provvedendo che nemmeno un filo di polvere s’insinuasse fra le righe del velluto blu dei suoi calzoncini, vezzeggiandolo, coccolandolo e carezzandolo, come si fa con un bambino o con un innamorato.
Ed aveva atteso il ritorno del suo uomo per lunghi giorni, intere settimane, interminabili mesi, certa, così come promesso, che sarebbe ritornato. Trepida, ne aveva atteso lo sguardo, il sorriso, il respiro: non le aveva, forse, detto: -Sei la mia vita, senza di te non vivo, tornerò?-
Ma, stringendo contro il petto il suo bel pupo di legno, il cuore oppresso come da un macigno, attonita aveva assistito ai funerali dei gelsomini e dei crisantemi, delle violette e delle rose, dei gigli e dei caprifogli; con il volto schiacciato contro il vetro, dalla finestra della sua stanza lungamente aveva scrutato l’orizzonte, lasciando rabbrividire il suo corpo quando fuori infuriava la tempesta di pioggia o violenti imperversavano i venti, quando grigia opprimeva la nebbia o trasversale sotto la tormenta la neve scendeva ad ammantare la terra dei suoi morbidi fiocchi (che si sarebbero intrecciati in gelida coltre), sempre sperando che, dopo i tuoni e i fulmini e il vento e la nebbia e la neve e il gelo, la primavera (e lui con lei), sarebbe ritornata, quasi aveva sentito rifiorire in lei la speranza: di certo la promessa sarebbe stata mantenuta!
Ma quella primavera non ritornò, lui non ritornò, lei non lo rivide mai più.
E fu così che cominciò a sfiorire, languida, nel languore delle sue vane speranze, delle inutili attese, dei morti ricordi.

III

Pioveva anche quel giorno, d’una pioggia silenziosa e lenta. Elisabetta, piangendo, si sporgeva dal parapetto stringendo contro il petto Ruggiero, guardava in basso il fiume correre, piano, ma lacrimoso, gonfio d’acqua grigia, simile al suo cuore oppresso, gonfio di dolore, grigio di tristezza.
Tornò a casa, il naso schiacciato contro il vetro della finestra, gli occhi cristallini sgranati vacui, a lungo guardò contro un indefinito infinito orizzonte, in attesa. Ancora continuò ad attendere per lunghi giorni, intere settimane, interminabili mesi, a barcamenarsi tra il sogno e la realtà, tra il rimpianto e la nostalgia, tra la dolcezza del ricordo e l’avvilimento della realtà, tra il passato e il presente, sempre cantilenandosi un monotono ossessivo ritornello: Ti lascio dormire sul mio cuore. Soltanto alla luna confido il mio amore. Mi abbandono al tuo ricordo. Muoio per te, così come muore l’estate vinta dal gelo. Poi ci fu un giorno di tempesta (finiva l’estate, ormai era morta), che le si era preannunciata attraversandole il corpo come una scarica elettrica; il cielo aveva prodotto lampi e tuoni, infine pioggia fitta, battente, che aveva lasciato crescere in lei sempre più l’affanno.
Seduta accanto al caminetto stringeva il suo pupo, si dondolava e piangeva. Un sopore la colse d’improvviso, Ruggiero le sfuggì, scivolò per terra, fu un attimo, una lingua di fuoco s’allungò, lo lambì, lo avvolse, prese fuoco. Elisabetta fu ridestata come da un gemito (o forse tale le era sembrato nel dormiveglia il crepitio del fuoco): con orrore realizzò la tragedia. Sì, era una tragedia; pensò che, oltre alla fine del suo amore (l’amore era finito, lui non sarebbe ritornato, ora ne era certa!), non avrebbe potuto sopravvivere anche alla fine del fantoccio del suo amore! Intanto che, in delirio, affondava la lama nella sua carne, e il sangue rosso lento si versava, chiuse gli occhi in deliquio, e, in follia, s’immaginò di suggerlo, così come insieme avevano bevuto quel giorno dalla stessa coppa, dopo aver suggellato il patto, e più suggeva e più si materializzava, nitido, il volto di lui, i suoi capelli attorti, i suoi begli occhi neri, la sua morbida barba, e più immaginava e più, avida, suggeva, ed insieme ne suggeva le labbra, sempre più vorace, sempre più ossessa, e le pizzicava, con i piccoli denti candidi le mordeva e le feriva a sangue, e il delirio assomigliava sempre più ad un’anomala, esagitata ebbrezza dei sensi, e mente e corpo e cuore e sogni e ricordi e realtà si mescolavano e si confondevano, e vedeva lui ed il sangue d’amore per lui, e la testa le girava come un mulinello di onde anomale in un oceano sconvolto dalla tempesta, finché si sentì travolta dalla bufera e, chiusi gli occhi, sospirò d’un ultimo respiro. Così, soltanto così, trovò, infine, requie ai suoi affanni. Quando la trovarono, rossa del suo sangue, giaceva accanto ad un nero mucchietto di cenere e metallici oggetti deformati: era tutto ciò che restava del suo pupo Ruggiero, che qualcuno riconobbe.

 

Francesca Santucci

 

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