L'esile consolazione

 

"Mia madre", acquerello digitale

 

 

Dagli atti di quest’Ospedale Civile… risulta che la Sig.ra…è deceduta …il giorno 8.06.2004
Diagnosi di morte:
Valvulopatia aortica serrata. Edema polmonare acuto. Arresto cardiorespiratorio irreversibile.
Si rilascia il presente in carta semplice, per gli usi consentiti dalla Legge, su richiesta della figlia.

Accadde l’8 giugno del 2004, era di martedì, nel cielo transitava, allora,  davanti al Sole Venere, l’anno era bisestile: mi furono entrambi funesti, forieri di disgrazia, l’astro e l’anno. Venere eclissò il Sole di mattina, intorno alle 7,30; più o meno alla stessa ora il cuore di  mia madre (tardivamente soccorsa …j’accuse) si fermò (milla volte mi sono chiesta, poi,  come fu che allora non si fermò pure il mio cuore, mille volte mi sono chiesta, poi, come fu che allora non impazzii!).
Poi mani estranee l’acconciarono per il rito funebre, le truccarono le palpebre definitivamente serrate sui suoi begli occhi verdi, le colorarono le belle labbra morbide (inerti ormai), vestirono il suo corpo per l’eternità con l’abito dell’ultima sua festa (che non riuscì a godere) di pizzo nero (Lei che amava la seta gialla), e la calarono sottoterra, al buio (Lei che amava l’infinità del mare e il Sole).
Ora è il mese di giugno, esattamente un anno dopo, la stessa opprimente calura, l'identico intenso profumo delle acacie in fiore.
Spingo lo sguardo oltre le piante fiorite sul balcone, sono gerani rossi e rosa, zonali e ricadenti, sono piante aromatiche e rampicanti profumati, sono rose rosse e rose rosa dai petali vellutati, i gambi lunghi, le  foglie dai bei toni di verde chiaro e brillante (e pure hanno tante spine aguzze, ma tutto in natura è calvario, ogni gioia ha il suo dolore, ogni sorriso una lacrima, ed anche la rosa ha insieme bellezza e crudeltà).
Spingo lo sguardo oltre le acacie fiorite  nel viale di casa dove, prima di scomparire alla mia vista, con il suo bel volto incorniciato dai capelli color di spiga matura nei campi d’estate inoltrata, i verdi occhi luminosi colore di smeraldo, la labbra carnose e rosate sempre al sorriso atteggiate, mi salutava un’ultima volta,  agitando lenta la destra, trattenendo con la sinistra il suo cane.
Non la vedevo molto in un anno, non sapevo mai quando l’avrei rivista di nuovo, ma bene si colmava la distanza geografica. Non c’era giorno che non ci sentissimo al telefono, più di una volta, e pure ci scrivevamo regolarmente, lettere e cartoline (che ancora conservo, legate in bel nastrino di raso rosa), che ancora mi parlano di Lei, che ancora mi parlano come se fosse Lei a farlo: fra garbo ed ironia, commozione e sorriso, puntuali resoconti del quotidiano, acute considerazioni e materne preoccupazioni su tutti i suoi figli, nostalgici ricordi dell’infanzia, persino, con l’attenzione  e l’arguzia d’ un viaggiatore settecentesco, racconti e valutazioni dei luoghi che, di volta in volta, visitava, la Sicilia, la Corsica, l’Arabia Saudita, la Grecia, la Francia, la Spagna, la Norvegia. Lei era come un lampo (non per sua volontà) che appare, abbaglia e poi scompare (mentre invece io l’avrei voluta fiamma di focolare), come una rosa di serra costretta a splendere solo per il suo giardiniere (“prigioniera” dell’ottuso egoismo di chi le era accanto …j’accuse), ma era ugualmente sempre ben presente nella mia vita, madre, sorella, confidente, amica, anche figlia, era sempre con me, come lo è anche ora che è definitivamente lontana e so per certo che non tornerà più  (ma mi è talmente dentro che mi pare essere, ormai, noi due, una cosa sola).
Anche il suo cane non tornerà più, il suo fedele inseparabile compagno, amico, fratello, figlio. Aspettò per diversi giorni, quel cane, la sua padrona, ora accucciato in silenzio, ora in ossessi giri abbaiante, senza mangiare, senza bere, poi una mattina  lo ritrovarono riverso in giardino, di fianco, le lunghe orecchie fulve penzolanti inerti al vento ancora profumato di acacie in fiore.
Guardavano al cielo i suoi occhi nocciola, ma lo sguardo era vacuo, perso nell’infinito azzurro: chissà cosa vedeva, ora, oltre le nuvole, chissà, forse scorgeva il volto della sua ritrovata padrona!
Spingo lo sguardo oltre le piante fiorite sul balcone sperando, invano, di vederla di nuovo arrivare, illusa, ansiosa come una bambina (ancora così lei mi chiamava, la “sua bambina”) che attende, in lacrime, il ritorno della sua mamma. Spingo lo sguardo oltre; folle, lo lascio spaziare nell’infinito azzurro del cielo, continuando a sperare di vederla da qualche parte, accanto a me o tra le nuvole, ma quando lo distolgo e torno in me null’altro vedo che il tremulo chiarore lattescente delle lacrime che non sono riuscita a trattenere.
Lattescenti, sì, queste mie lacrime hanno proprio l’aspetto del latte, che non ho mai amato, facendo penare mia madre da bambina per berlo di mattina prima di andare a scuola. Se solo potesse sapere come sarei disposta  a mandarlo giù, ora, senza capricci pur di compiacerla! Pur di averla di nuovo con me sarei disposta anche ad attaccarmi, adulta, come una neonata alle sue morbide mammelle, ma Lei non tornerà, ed io resterò immobile come il suo cane.
Quando più avanzano ed incalzano l’uno dopo l’altro, schierati come soldati in battaglia pronti ad assaltare e a colpire e a mortalmente ferire, i ricordi, che non evoco, non richiamo, ché anzi vorrei smemorare, ma che giungono inattesi ed improvvisi, riaffiorati da chissà quali oscuri abissi; quando più forte è la nostalgia, più assoluta la disperata certezza del non ritorno; quando più mi pervade il dolore, quando più subdolo e sottile come un divorante cancro in profondità mi trapassa, intridendo ogni fibra del mio corpo, accelerando al massimo il ritmo del cuore, allora cerco di consolarmi giocando di fantasia: adagio distendo sul mio corpo uno dei suoi vestiti (che conservo come sacre reliquie, non gusci ormai vuoti, ma ancora ripieni di lei),  in dolce carezza passo entrambe le mie mani sulle guance, poi prima con una mano e poi con l’altra sfioro la pelle delle braccia, e così,  in qualche modo, mi pare che ci sia Lei ad accarezzarmi, ed  io accolgo la sua carezza e la ricambio, e Lei trasmigra in me ed io mi sciolgo in Lei, in reciproco parto, come se io l’assimilassi e Lei m’inglobasse, come se sbocciasse una nuova creatura che non sono più io e non è Lei ma che siamo entrambe in perfetta fusione, un solo corpo che si prodiga in un’unica immensa carezza che è insieme materna e filiale.
Allora, con gli occhi chiusi, il cuore che, finalmente, più calmo batte, quasi pacificata,  resto in ascolto, e mi pare di sentire, dapprima lieve come la levità del vento di primavera, poi più forte, un fruscio, poi un fremito, poi un sussurro, infine distinguo netta una voce che mi mormora le parole che era solita ripetermi con espressione insolitamente grave (ma non la gravezza, la leggerezza, non il pianto, ma il sorriso si addicevano al suo viso): “Sei la mia rosa. Anche quando non ci sarò più ti sarò sempre vicina per augurarti tanta felicità. Ricorda, ti voglio tanto bene”!
Ecco che giunge, allora, l’esile consolazione!

Francesca Santucci

 

 

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