Francesca Santucci

Fra le onde

(racconto pubblicato sulla Rivista di Letteratura Euterpe n° 11 – marzo 2014

 www.rivista-euterpe.blogspot.it)

Collier Twentyman Smithers, Una gara con sirene e tritoni (1895)

 

Che strano malessere quello che m’affliggeva: soffrivo di chinetosi. M’assaliva subdolo, altalenandomi fra disgusto, vertigini, ansia, pallore, sudori freddi, nausea e vomito, quasi impedendomi di stare in piedi. Era un autentico travaglio per me spostarmi in auto, in autobus, in treno, ma ogni anno, nella bella stagione, dovevo, categoricamente, tanto forte era il suo richiamo, raggiungere il mare, che, però, distava, e la calura era opprimente, e ogni volta era un po' come morire, tanto stavo male, ma la (ri) nascita era tra la sofferenza dei due viaggi: il viaggio di andata, il viaggio di ritorno. E, una volta in acqua, anche le voci dei bagnanti e i gridolini festosi dei bambini, suoni fastidiosi, divenuti quasi indistinti, mi risultavano piacevoli quando, infine risanata, a lunghe bracciate, raggiungevo il largo.
Due inverse onde quelle che m’investivano: la prima, sgradevole, arrivava in auto, dallo stomaco risaliva alla bocca e mi costringeva, giunta a destinazione, a non assaporare subito il piacere di tuffarmi fra le onde, ma a relegarmi, forzatamente, assentandomi dalla compagnia di parenti ed amici, nello sgabuzzino dei pescatori  dello stabilimento balneare dove, puntualmente, ogni anno ci recavamo, messomi a disposizione dai premurosi proprietari da lungo tempo conoscenti dei miei genitori.
Qui, tra gli attrezzi da pesca, le reti da traino e a strascico, i tramagli, i cordami, i palamiti, le nasse e le lampare, su uno striminzito materasso adagiato su un lettino d'emergenza, supina, mentre fuori la vita ferveva, confortata solo dal volto di mia madre che, sollecita, veniva ad accertarsi delle mie condizioni, smaltivo la nausea interrogandomi sul mio mal di moto, che mi costringeva a ricorrere alla xamamina instupidendomi per la sonnolenza.
La seconda onda, piacevole, mi raggiungeva in mare, mi entrava dal naso mentre respiravo il profumo dell'aria salmastra, penetrava dentro di me fino a raggiungere le gambe che, d'incanto, sembravano congiungersi e convertirsi in coda, consentendomi la nuotata liberatoria.
Intensamente amavo il mare, insieme alla leggerezza della sabbia, al ritmico sciabordio delle onde illuminate dai mille riverberi del disco solare, ai rauchi stridii dei rari gabbiani in lontananza. Mi dava le vertigini l'immensa distesa in movimento, l'enorme vastità ritmicamente rumoreggiante delle acque verdi-azzurre, separate dal blu del cielo da un lungo squarcio paglierino: solo qui potevo sentirmi libera lungamente nuotando e lasciando galoppare la fantasia a briglia sciolta.
Mi piaceva fingermi Bentesicima (la "sollevatrice di flutti"), la figlia di Poseidone, il potente dio del mare e dei cavalli, sovrano di tutte le acque ("il dio che racchiude e tiene prigioniera la Terra"), e di Anfitrite, una Nereide, la più bella delle cinquanta figlie di Nereo e Doride che abitavano il mar Mediterraneo, splendide fanciulle dai capelli d’oro e il volto bellissimo, gentili e benefiche assistenti della dea del mare, Teti, sguazzanti fra le onde insieme ai Tritoni, i favolosi esseri mezzo uomo e mezzo pesce, capaci di placare o far agitare i flutti.
Fantasticavo di vivere nelle profondità marine con mio padre, mia madre, mio fratello Tritone e mia sorella Roda, in un magnifico castello, con muri di cristallo e madreperla, finestre d'ambra gialla, colonne di corallo rosato decorate da perle e conchiglie, tra le quali si ricorrevano fiori vivi dai magnifici colori e piante flessibili dal fogliame diafano. Talvolta immaginavo di accompagnare in superficie mio padre Poseidone, quando, sbollite le ire che lo spingevano a scatenare mareggiate e terremoti, si mostrava benevolo verso i naviganti, concedendo un mare calmo e senza tempeste: allora emergevamo per passeggiare sulla superficie delle acque, lui ritto in piedi con il tridente stretto in una mano, sul carro a forma di conchiglia guidato da Proteo, trainato da quattro cavalli bianchi dalle criniere d’oro e dai sonanti zoccoli d'argento. Precedeva il corteo Tritone, sino ai fianchi uomo, il resto del corpo, ricoperto di alghe, terminante in coda di pesce. Per placare il moto irrequieto dei flutti suonava la buccina, una conchiglia dalla forma ritorta, seguìto tra le bianche spume dai delfini festosi e da un corteo di divinità marine: le Oceanine (le ninfe dell’oceano), i Centauri di mare, che portavano sul dorso le Nereidi (le ninfe degli abissi), protettrici dei naviganti, che vivevano nelle profondità del mare in una grotta d’oro assise su troni pure d’oro, ma salivano in superficie per cavalcare i delfini, e le fascinose Sirene, terribili creature che intonavano armoniche melodie per la regina e per il re delle acque.
Altre volte mi piaceva fantasticare di essere proprio una sirena nel corteo delle sirene, le seducenti creature dalle lunghe chiome fluenti, come le Nereidi ibride, per metà animali, per metà umane, sulle quali si favoleggiava credendole demoni della morte, anime che venivano mandate a catturare altre anime, ammaliando con il loro irresistibile canto i marinai, facendoli naufragare contro gli scogli e perire. Mi fingevo la sventurata Parthenope che non era riuscita ad incantare Ulisse con le sue dolcissime melodie e che, perciò, si era lasciata morire, o, ancòra, la sirenetta della fiaba di Andersen che, innamoratasi del principe, ottenuto dalla strega del mare di avere le gambe al posto della coda, sacrificando la sua dolcissima voce, muore, poi, sconvolta dal dolore, quando non riesce a conquistare il suo amore e lui sposa un'altra.
Ma la mia fantasia più bella, luccicante il sole obliquo del tramonto, era quella di sognarmi medusa, grossa bolla iridescente, meraviglioso fiore marino color dell'opale, lieve, evanescente, fragile, che sembra fatto dell’impalpabile essenza della spuma marina, piccola coppa di tenue cristallo soffiata da un ignoto artefice nelle profondità verdi-azzurre, creatura "velata" che si contrae ritmicamente muovendosi in strana andatura fluttuante, bella, ma crudele, capace di uccidere con il suo segreto liquido urticante, mobile, fosforescente, che spesso naviga insieme a migliaia di altre creature della sua specie, specialmente al crepuscolo o di notte, illuminando il mare di una fantasmagoria di luci, di scintille argentee, con la prodigiosa sua luminescenza, come se un magico chiarore lunare sorgesse dalle acque. Allora la mia immaginazione ancor più s'accendeva, in quei momenti più intenso si rinnovava in me l'eterno incanto del mare, mi nasceva in cuore il desiderio di esplorare i fondali, e m'inabissavo.
Nel mio viaggio sott'acqua incontravo le più disparate creature. Già pochi metri sotto la superficie il mare mi offriva lo spettacolo dei suoi segreti gioielli; là, dove la luce del sole ancòra vivamente rischiarava arbusti e speroni rocciosi, davanti ai miei occhi appariva, visione splendida e irreale d'incomparabile bellezza, una foresta bianco-rosata, ove i rami e i tronchi immobili s'intersecavano come marmoree smerlature gotiche nel silenzio turchese: erano i coralli che, in meravigliosa efflorescenza, con il loro colore dal bianco al rosa al rosso cupo, si allargavano nel silenzio sottomarino con fiori simili a fini ricami, con flessuose arborescenze, delicate trine calcaree, palpitanti al passaggio di sciami luccicanti di pesci iridati o di pallide meduse che scivolavano come sogni nell'arboreo arabesco d'ombre e riflessi.
Li si credette, i coralli, per un certo tempo, ramoscelli marini che indurivano appena tolti dall'acqua, finché un naturalista francese, verso la metà del secolo XVIII, messo un rametto di corallo in un secchio pieno di acqua di mare, lo vide miracolosamente fiorire di piccole corolle e intuì che quei fiori non appartenevano al regno vegetale, ma erano animali marini. E tradizione volle che colei che tenesse in seno un rametto di corallo, dopo averlo baciato, avrebbe reso le proprie labbra soavi e rosse come il corallo stesso.
Scendevo, poi, ancòra più giù, nel profondo, nuotando fra le sinuose alghe (probabilmente le progenitrici di tutte le forme di vegetazioni terrestre), belle ed eleganti, ma anche utili, come l'alga
Fucus vesiculosus il cui tallo, pestato, produceva una cenere dalla quale si ricavano varie sostanze usate per curare alcune malattie; o la Plocamium coccineum, che forniva il belletto comunemente usato dalle donne romane. Incontravo, poi, i ricci di mare, raggruppati a centinaia, come incrostati sulle pietre, per lo più affondati nella sabbia, immobili; le stelle marine multicolori, di colore rosso, arancio, giallo-bruno, verde-olivo, a macchie nere, perennemente aggrappate con la faccia ventrale contro il fondo marino. E poi le conchiglie, dalle originali forme e gli svariati colori declinati in innumerevoli variazioni, colori uniformi e modesti, grigie, brune, nerastre, o smaglianti, con disegni screziati, elegantissime e fantasiose, striate o macchiate come la pelle delle tigri e dei leopardi, o lisce come marmo levigato, o irte di spaventosi spunzoni. Mille i loro nomi fantasiosi: l'Orecchia di mare, una conchiglia dai meravigliosi riflessi madreperlacei, così chiamata dalla sua bellissima valva simile al padiglione auricolare; l'Astrea o Trottola rugosa, a forma di trottola, il cui opercolo calcareo, detto "occhio di Santa Lucia", è da sempre considerato un portafortuna ed utilizzato per la creazione di bellissimi monili; il Cannolo, formato da due pezzi lunghi e stretti come una cannuccia; la Tellina aurora, piccola, dalle iridescenze del cielo quando è tinto dai primi raggi del sole, tutta sfumature bianco-oro o rosate; la strana Gengiva rossa, che sembra una bocca umana che mostra i denti e le gengive sanguinanti; l'inspiegabile Voluta musicale, che reca sulla conchiglia di colore giallo-bruno le linee di un pentagramma con alcune note musicali; la Tonna galea, dall'insolito nome latino perché ricorda la sua forma l'elmo. E poi i pesci d'argento, d'oro, di vetro, di seta, di velluto, neri, rossi, turchini, verdi, gialli, zebrati, macchiati, fasciati dei colori più vivi, delle iridescenze più strane, per ogni verso guizzanti nelle mille direzioni del magico fondale.
Allora anch'io divenivo creatura d'acqua, quasi mi pareva di ritornare a galleggiare nel mio primo elemento, il liquido amniotico del ventre della mia mamma, e poi, sempre più regredendo, mi pareva di divenire  nulla, in dissolvenza nell'elemento primordiale, ove non v'era affanno e non v'era pena, non v'era angustia né dolore: lì si placava, infatti, il mio dolore, lì s'acquietava il mio tormento, in un'estasi che era insieme dei sensi e spirituale … ma giungeva il tempo della risalita, incombeva il tempo del ritorno, dalla terra al mare, dal mare di nuovo restituita alla terra.
Riemersa, malferma sulle gambe, i miei passi esitavano sulla sabbia. Dopo le indimenticabili emozioni che mi aveva offerto lo spettacolo della flora e della fauna marina, dopo i mille colori delle profondità marine che, caleidoscopici, si erano offerti ai miei occhi stupiti, dopo il mio attimo di eternità, immersa in un silenzio irreale, come dopo una tempesta, la spiaggia m'appariva desolata e cupa, disseminata di valve di conchiglie morte e alghe fradice, lugubremente risonante del lieve ansare della risacca.
Di tutte le mie esaltanti fantasie quasi nulla permaneva, solo, ora, un triste abbaglio: la visione di vesciche violacee, afflosciate, informe ammasso di mucillaggine biancastra, ciò che restava dei corpi trasparenti, ma vivi, gonfi, luccicanti, delle meduse che avevo immaginato e tra le quali anch'io avevo fluttuato luminosa, palpitando di ebbrezza.
Ora era tempo di andare, dalla Bellezza al Malessere, di nuovo il mal di moto, tra la nausea ed il disgusto, ed il lungo viaggio di ritorno che mi sarebbe sembrato infinito, finché non sarei riapprodata, in cadaverico pallore, stravolta, a casa, dove ad attendere ci sarebbero state le rassicuranti braccia della mia nonna materna, che mi aveva iniziata all'amore per il mare e alle fantasticherie, raccontandomi spesso, quando ero bambina, la leggenda di Cola Pesce, il ragazzo che nuotava come un pesce, che gareggiava coi delfini e coi Tritoni, che amava inabissarsi fra le acque trasparenti dello stretto di Messina e che, infine, non era più tornato a galla quando, giunto in fondo al mare, aveva visto la colonna Peloro, sulla quale poggiava la cuspide settentrionale della Sicilia, quasi sul punto di crollare, ed allora, temendo che la sua Messina potesse sprofondare da un momento all'altro, aveva deciso di restare a sostenerla.
Ritornata creatura terrestre, me ne sarei stata diverse ore supina, inerte, floscia come una morta medusa, a sognare di quando, invece, ero stata libera creatura marina.

 

Francesca Santucci

 

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