Francesca Santucci

 

 

IL CAPPELLO ROSSO

 

 

(Antologia  AA.VV., “Quello che le donne dicono”, Kimerik 2019)

 

 

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(racconto ispirato al dipinto su seta dell'Artista Vincenzo Sorrentino)

https://vincenzosorrentinoarte.it/

 

 

 

 

Erbe ingiallite, alberi ormai spogli. Chissà dove vanno a morire le foglie gialle, rossicce, marroni, che il vento dell’autunno stacca dagli alberi e spinge lontano. Per un po’ fluttuano nell’aria, volteggiano come leggiadre farfalle, poi si disperdono nel brusio del vento, nel fitto velo di nebbia che ruba i colori alle cose e ne dissolve i contorni, tanto che sembra di camminare in un mare di nuvole, ma poi, dove vanno a morire?
Ora siamo in novembre. La temperatura è rigida. Stanotte è anche caduto un leggero strato di neve che, sciogliendosi, stamattina è diventato fanghiglia che ha imbrattato i viali e le strade imprimendo alla città un aspetto squallido e desolato.
Osservo un albero spoglio fuori della mia finestra; solitario, contro il cielo freddo allunga i suoi rami bruni. Penso che lo percuoteranno la neve e il gelo, ma poi i suoi rami secchi rinverdiranno a primavera.
In genere, pensare al verde che tornerà, riesce a scacciare da me la malinconia, ma non oggi. Solo pochi giorni fa ho saputo della morte di Silvia. È accaduto quasi un anno fa, il 10 gennaio. Ha riportato i figli a casa da scuola, è uscita di nuovo, per qualche ora ha vagato in auto da sola, poi si è tolta la vita andando a schiantarsi contro un albero. È accaduto fuori, in campagna, mentre imbruniva.
Me la ricordo bene al liceo, per qualche tempo studiammo insieme e ci frequentammo anche conclusi gli studi, poi la vita ci allontanò.
Alta, sottile, lunghi capelli ramati, occhi cangianti fra il verde e l’azzurro, nasino alla francese, bella ma noncurante del fascino che esercitava sui ragazzi. Tutti ci provavano a corteggiarla, ma senza successo, lei non era superba o altera, solo indifferente, ad altro interessata, e il suo atteggiamento distaccato portò ben presto a farla definire “bella ma gelida come un iceberg” e questo divenne il suo soprannome: “iceberg”.
Silvia era l’unica fra noi compagne di classe a portare dall’autunno fin quasi al principio della primavera un cappello (ma nella nostra città il clima è mite anche a gennaio, dunque era altro, non necessità, indossarlo), di colore rosso, sotto il quale la sua testa era attraversata da pensieri diversi dai nostri.
Tutte vivevamo con gioia i nostri studi, al termine dei quali avremmo scelto di frequentare chi la facoltà di Lettere e Filosofia, chi quella di Medicina, chi d’Ingegneria, chi di Scienze Biologiche.
In quegli anni agitati da venti di libertà, ora che più nessun pregiudizio discriminava le donne, le opportunità più disparate e pari a quelle dell’uomo offriva il mondo del lavoro, che ci sembrava pieno di lusinghe e con possibilità sia di guadagno sia di emancipazione, ma Silvia non condivideva il nostro entusiasmo, a lei poco interessava il futuro lavorativo, molto disegnare e dipingere, tanto che, pur conseguendo buoni risultati in tutte le materie, i professori spesso sottolineavano che aveva sbagliato indirizzo scolastico, non gli studi classici, ma quelli artistici le sarebbero stato più congeniali.
Noi altre, quando non eravamo prese dagli impegni scolastici, dalle ansie per le interrogazioni, per i compiti in classe, trascorrevamo il tempo a sognare l’amore, magari già interessate a qualche ragazzo adocchiato a scuola o in chiesa o nel quartiere,  ripetendo scherzose l’ossessiva  cantilena appresa da bambine,  toccandoci le dita una alla volta, tirandole fino a sentirle scrocchiare al nome del ragazzo dal quale volevamo sapere se ricambiava il nostro interesse:

Hai tu penna e calamaio?

Hai qualcuno che ti ama?

Sai tu dir come si chiama?

Se … ti amerà,

questo dito scrocchierà.

Silvia amava disegnare e dipingere qualsiasi cosa,  fiori, paesaggi, marine, animali, ma, soprattutto, volti di donne, belli come il suo, con grandi occhi chiari, rosee labbra carnose, chiome fluenti. Purtroppo non poté coltivare la sua passione, la vita dispose diversamente per lei. Terminato il liceo non ci fu l’Università, ma subito un impiego per aiutare economicamente la famiglia dopo la morte del padre, e poi il matrimonio e poi la nascita dei figli. Chiusa nel cerchio di moglie-madre-lavoratrice, stretta in quei ruoli che pure svolgeva egregiamente, costretta a rinunciare al suo sogno, imparò a rubare qualche ora alla notte per non abbandonare del tutto l’antica passione, che continuava a coltivare segretamente anche per distrarsi dal suo dolore. Qual era il dolore di Silvia? Suo marito, che, dopo il matrimonio, si era rivelato ben diverso da come si era mostrato agli inizi della loro conoscenza.
Silvia lo aveva amato da subito, per quella sua aria tenebrosa ma, soprattutto, perché timido, impacciato, fragile, a volte simile a un bimbo sperduto nella notte oscura, bisognoso di rassicurazione, di protezione: l’innato senso materno non poteva che spingerlo verso di lui, che irruppe nel suo cuore. Fu allora che ci allontanammo, quando lei lo conobbe. Silvia si votò completamente al suo innamorato, ignara della delusione che le si preparava.
Può accadere, infatti,  che secoli di civilizzazione non abbiano intaccato la primitiva barbarie  del maschio, e che la bestia umana, dopo essersi distaccata dalla posizione carponi dei suoi scimmieschi progenitori, ed aver assunto la posizione eretta sollevandosi sulle gambe,  abbia soltanto imparato ad usare con maggior astuzia il cervello, affinando le  armi per esercitare la sua aggressività sul più debole, soprattutto sulla donna. La bestia umana, pur divenuta sociale, ripulita, rivestita, odorosa, colta, pur diventata uomo affabile, gentile, amorevole, eroico cavaliere, romantico poeta, esprima il suo amore, che tale poi non è, in modo deviante: attraverso la violenza.
Accadde anche a Silvia di conoscere l’altra faccia dell’amore. Per un’immotivata gelosia lui vedeva ombre ovunque, allora si trasformava, diveniva prepotente, violento, la picchiava e lei nascondeva col trucco i lividi, inventandosi con chi le chiedeva spiegazioni i più disparati incidenti domestici, e taceva, come, purtroppo,  fanno tante donne che subiscono in silenzio e non denunciano, assurdamente ostinandosi ad avere fiducia in un cambiamento che, sperano, avverrà, nell’uomo amato-deviato, ma che, poi, quasi mai arriva.
Ma Silvia a lungo non resse alle botte e alle percosse, non solo fisiche: poteva nascondere i lividi sotto gli abiti o con il trucco, ma ben incise dentro di sé restavano le cicatrici di quelle violenze. Chissà, forse se avesse avuto la forza di denunciare non avrebbe prematuramente e in quel modo finito i suoi giorni ... ma lei, caparbia, fino all’ultimo sperò in un cambiamento nel marito … fino a quel giorno in cui, miseramente, crollò e andò a schiantarsi.
Ho saputo delle violenze che subiva solo dopo la sua morte, dalla madre, che ho cercato per le condoglianze, che si è ricordata di me e mi ha accolta come fossi una  figlia: chissà, forse in me ha rivisto la sua Silvia.
Come una pentola piena d’acqua che, al forte ribollire trabocca, mi ha raccontato tutto. Solo con lei Silvia si era confidata, rifiutando qualsiasi aiuto, ignorando le sue continue esortazioni di andare a denunciare il marito o, almeno, di lasciarlo, ma non le aveva dato ascolto, perché comunque lo amava e perché non voleva privare i figli della famiglia, perciò medicava i segni delle violenze e soffriva
in silenzio, subendo, non denunciando, credendo che quello fosse comunque amore, ed invece era un sentimento morboso, malsano, malato.
Da sua madre ho saputo anche che, dopo la morte di Silvia, fra le sue carte, insieme ad una pagina di diario, in cui, quindicenne, aveva annotato Ho paura di crescere. Non voglio sposarmi, voglio essere libera. Non voglio lavorare, voglio dipingere, sono stati ritrovati moltissimi disegni e schizzi a matita: rappresentano tutti dei cavalli, sempre nella postura della corsa. L’ultimo ritratto, invece, l’unico eseguito a colori, che porta la data del giorno prima della sua morte, raffigura un bel volto di donna, dagli occhi chiari, labbra a cuore, gote rosate: sopra la bella capigliatura ramata c’è dipinto un cappello rosso.

 

 

 

 

(racconto presente anche nell'antologia AA.VV., " I Cannibali Questioni di famiglia nel cinema, nell'arte nella letteratura",

 Efesto 2019)

 

Antologia presentata all'evento collaterale della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia

 2019, dedicata dal Centro Studi di Psicologia dell'Arte e Psicoterapie quest'anno alla famiglia.

 

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