Francesca Santucci

 

 

IL CASTELLO DELLA MANTA

 

(AA.VV., "Piemonte segreto e sconosciuto", Historica edizioni 2022)

 

 

 Il Piemonte è indubbiamente una delle regioni più pittoresche d’Italia, scrigno di meraviglie naturali, come le valli, che adducono alle celebri vette vertiginose, tra cui il Monte Rosa, che ai primi raggi del sole tinge di rosa le sue nevi, come il Monte Bianco e il Monte Cervino (altri giganti delle Alpi che si profilano e abbagliano), gli estesi ghiacciai, le pinete ombrose, le colline inghirlandate di vigneti delle Langhe e del Monferrato, i fiumi e i torrenti spumeggianti, i pascoli ventosi, le infinite varietà di flora, ma anche “paesaggio storico” che conserva il ricordo di un passato appassionante.
A testimoniare i secoli lontani, soprattutto quelli tumultuosi del Medioevo, sentinelle immobili nel tempo stanno i castelli, le torri, le rocche e i manieri, adagiati fra le valli o dominanti sui passi, taluni diroccati, altri restaurati.
Incastonato in uno splendido scenario, sullo sfondo del Monviso
(Monviso dal latino Mons Vesulus, ossia montagna isolata e ben visibile), il Re di Pietra conosciuto sin dall’antichità (citato da Virgilio nell’Eneide e da Dante nella Divina Commedia, chiamato Vesulus pinifer dai Romani, Vesulo, Punta o Bricco di viso dai piemontesi), che con il suo profilo aguzzo domina la splendida corona delle Alpi Cozie, nel paese di La Manta, in una posizione strategica tra le colline di Saluzzo e Cuneo, si staglia uno fra i castelli più belli della regione.
Imponente a guardia della zona, che però non ha mai subito assedi, il Castello della Manta risale al XIII secolo e fu fatto costruire dalla nobile famiglia dei Saluzzo della Manta, che ne mantenne la proprietà per oltre quattrocento anni, fino al 1759.
La sua presenza era già documentata nel 1227, ma allora era un castello residenziale con una torre di avvistamento, ben diverso da come si presenta oggi a causa  dei continui rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli.
Fortezza medievale, trasformato nei secoli in palazzo signorile, è un edificio medievale dal fascino severo, con spesse mura poggiate sulla roccia e pareti ingentilite da splendidi affreschi e decori, tra i quali campeggia il
motto dei signori della Manta, leit, adagio, impresso sul camino al lato dell’ingresso, ricco di saloni e scaloni cinquecenteschi, continuamente trasformato nel corso di epoche diverse, comprende una torre, resti di altre torri scomparse sugli alti muraglioni, grandi sale affrescate, un ampio giardino e una chiesetta.
Nato come avamposto militare, fu nel Quattrocento che da roccaforte fu trasformato in fastosa dimora di famiglia, grazie al figlio illegittimo del marchese Tommaso III di Saluzzo, Valerano, nato da una relazione avuta con una popolana della Manta.
Quando divenne signore e reggente del Marchesato di Saluzzo, Valerano, uomo colto e illuminato, che voleva anche proporsi come giusto condottiero, si premurò di arricchire la Sala Baronale con bellissimi affreschi, considerati tra i più importanti d'Europa, testimonianza unica della cultura cavalleresca del tempo e della pittura tardogotica profana.
Dopo la metà del Cinquecento, poi, il Castello fu rimaneggiato da Michele Antonio Saluzzo e successivamente da Valerio Saluzzo. Nel Seicento ancora dimoravano nel castello parenti di Valerio. Alla fine del Settecento, con l’estinzione dei Saluzzo della Manta, fu abbandonato e per oltre due secoli diventò un ospedale militare, finché non divenne patrimonio del conte Radicati di Marmorito, che iniziò a restaurarlo senza molto successo. Infine, nel 1985, la contessa Elisabetta de Rege Thesauro di Donato Provana del Sabbione, che lo aveva ricevuto in eredità, nell’ottica di un progetto di valorizzazione culturale lo concesse in comodato al Fondo Ambiente Italiano. Da allora numerosi sono stati gli interventi di restauro che gli hanno permesso di ritornare all’originario splendore. 
Vari gli ambienti che caratterizzano il Castello, meta ogni anno di numerosi turisti, immerso con le sue decorazioni e la sua storia nell'immaginario cortese del tempo, popolato di eroi greci e romani, di cavalieri della tavola rotonda, dame e principesse, mostri e draghi.
In una sala, all'interno di una piccola nicchia, è conservato un affresco di autore anonimo, risalente al Quattrocento, raffigurante un’opera molto intima e materna, una dolcissima Madonna del Latte, cioè la Vergine Maria nell'atto di allattare Gesù, iconografia cristiana quella della Madonna del latte o galactotrofusa, in latino Madonna lactans o Virgo Lactans lactans, molto diffusa nell’arte.
Nella Sala Baronale, la stanza più affascinante del Castello, fatta affrescare tra il 1416 e il 1426 da Valerano, che la utilizzava come sala di rappresentanza dove celebrare il proprio potere, sulla parete di fronte alle finestre spicca una ricchezza di affreschi tra i più significativi esempi dell'arte tardogotica in tutto il settentrione. In un vero e proprio ciclo pittorico, forse eseguito dall'anonimo pittore Maestro del Castello della Manta, sono effigiati, probabilmente con i tratti dei marchesi e delle marchese di Saluzzo, a raffigurare gli ideali cavallereschi e le virtù militari e morali, nove prodi e nove eroine dell’antichità classica e della letteratura biblica, abbigliati con preziosi abiti quattrocenteschi e tutti armati.
I personaggi maschili sono eroi pagani, cristiani ed ebrei, quelli femminili sono tratti dalla mitologia e dalla storia antica, intervallati da alberelli di essenze diverse sormontati da scudi. Troviamo: Ettore, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giosuè, Davide, Giuda Maccabeo, Re Artù, Carlo Magno, Goffredo di Buglione, Deifile, Sinope, Ippolita, Semiramide, Etiope, Lampeto, Tomiri, Teuca, Pentesilea.
Il suggestivo ciclo pittorico fu ispirato a un poema scritto dal marchese Tommaso III di Saluzzo, le Livre du chevalier errant, uno dei più importanti testi cavallereschi medioevali, la cui stesura avviò nel 1395, durante la prigionia nel Castello di Torino, catturato dalle armate sabaude mentre stava compiendo un'incursione nel territorio di Monasterolo, e che, con ogni probabilità, ultimò nei primi anni del Quattrocento. Nell’opera, scritta in francese (sostituitosi in Piemonte al provenzale), forse destinata ai soli membri della corte, sicuramente a un pubblico colto giacché denso di tutto il sapere enciclopedico del tempo, attraverso il viaggio e le imprese cavalleresche di un cavaliere anonimo che, partito in cerca dell’amata attraverso i regni del Dio d’Amore, di Dama Fortuna e di Dama Conoscenza, perviene alla scoperta della sapienza e alla conversione all’amore divino, il Marchese intese rappresentare un’allegoria della vita.
Il poema, a sfondo autobiografico, si snoda in un viaggio metaforico in bilico tra realtà e finzione, con riflessioni dell’autore sulla sua esistenza, sul ruolo sociale e politico del proprio casato e della cavalleria, spesso ricorrendo ai temi consueti della letteratura cavalleresca (le armi, la caccia, gli amori), collocando al centro della narrazione il tema della Dama Fortuna che, con i suoi disegni imperscrutabili, i suoi capricci, ha un ruolo decisivo nelle vicende umane, mutandole o addirittura capovolgendole, come di persona il Marchese sperimentò vivendo la sventura della cattura e della prigionia durante la quale cominciò, appunto, a scrivere il poema.
Sulla parete opposta della Sala Baronale troviamo rappresentata la “Fontana della Giovinezza”, che propone il mito medievale dell’eterna giovinezza: la leggenda narra che questa fontana era in grado di ridare la giovinezza a chiunque, di restituire la verginità alle dame e di preservare dalle malattie.
La forma della fontana, simbolo di vita, giovinezza e amore, di energia spirituale e rinnovamento, motivo prediletto dell’arte medievale e immagine preziosa dei rituali dell’amor cortese, che serviva a esorcizzare la paura della vecchiaia e della perdita della virilità, ricalca il motivo del fonte battesimale e indica l’ingresso in una nuova dimensione esistenziale.
La sommità della Fontana, simbolo di vita, giovinezza e amore, di energia spirituale e rinnovamento, è protetta da un Cupido alato, raffigurato nell’atto di scagliare le frecce d’amore sui personaggi di vario rango ed età, re, regine, popolani, deformi, su carri, a cavallo, a piedi, che vanno a immergersi in una fontana esagonale. Gli anziani vengono aiutati a svestirsi e a entrare nel bagno miracoloso. Quelle acque, infatti, hanno straordinarie proprietà terapeutiche: ridonano vitalità al corpo delle persone anziane e infondono nuovo vigore sessuale negli amanti (infatti, nell’affresco è presente anche una coppia di amanti che conferisce un’intensa connotazione erotica alla scena). Da quelle acque usciranno tutti giovani e rigenerati, pronti a vivere per l'eternità.
Altro luogo interessante del Castello è l’appartamento di rappresentanza voluto intorno al 1560 da Michele Antonio della Manta.
La camera da letto ha il soffitto in legno originale del Cinquecento. Il letto a baldacchino, ben conservato, incuriosisce per le ridotte dimensioni, dovute a tre motivi: si dormiva non proprio del tutto distesi per scaramanzia (perché la posizione distesa era quello del morto), per cura della salute (dormire leggermente rialzati, essendo l’alimentazione molto pesante, aiutava la digestione) e per difesa (avere una posizione non troppo comoda consentiva un sonno più leggero e rendeva pronti a reagire in caso di attacco al castello).
L’ambiente più significativo dell’appartamento di Michele Antonio di Saluzzo della Manta è la Sala delle Grottesche, dove si trova un’importante testimonianza della pittura manierista del Cinquecento, con uno splendido soffitto, finemente dipinto e decorato con stucchi di chiara impronta manierista (ispirati a quelli delle Logge di Raffaello in Vaticano), antiche rovine, architetture rinascimentali e grottesche, particolare tipo di decorazione pittorica parietale fantasiosa e ludica, caratterizzata dalla raffigurazione di esseri ibridi e mostruosi, spesso con intento didascalico.
Nel soffitto di una delle sale del secondo piano del Castello si trova, poi, un altro interessante affresco, risalente al periodo tra il 1418 e il 1430, un mappamondo che ritrae, oltre all’Europa, la costa dell’America e quella dell’Antartide. Circondato da una grande “O”, è seguito dalla scritta: SPIRITUS INTUS ALIT, cioè lo spirito alita dentro, probabile allusione alle pergamene consultate da Tommaso III per scrivere il suo poema.
Annessa al Castello c’è una Chiesetta dedicata alla Vergine, presumibilmente fondata intorno al Quattrocento, negli anni in cui il Marchesato fu retto da Valerano, che in due locali custodisce incantevoli affreschi del XV e XVI secolo dedicati alla Passione di Cristo.
Di gusto manieristico è pure la Cappella del Cristo risorto, risalente al XVI secolo e voluta da Michele Antonio Saluzzo, ricca di pitture e decorazioni a stucco.
In perfetto intreccio fra storia, arte, letteratura e natura, circonda il Castello della Manta un parco ampio e ombreggiato, con grandi alberi secolari e una piccola e romantica orangérie, dove in inverno vengono conservate le piante di agrumi: da questo parco si gode un’incantevole vista sulle ridenti colline della val Varaita, la valle che si snoda fra prati e boschi da fiaba, chiamata “smeraldina” per le mille sfumature di verde della sua rigogliosa vegetazione. 

 

Riferimenti bibliografici
Piovano Anita, Castello della Manta, Gribaudo, Cavallermaggiore 1989.
Battistini Matilde, Simboli e allegorie, II parte, Electa Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2004.

Romano Giovanni (curatore), La Sala baronale del castello della Manta, Olivetti, Milano 1992.

 

 

 

 

 

 

 

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