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Francesca Santucci
IL CIBO DI DIO
(AA.VV., "Racconti a tavola ", Historica edizioni 2025)
Era l’anno del Signore 1350, un periodo in cui le spezie orientali erano incredibilmente rare a trovarsi, e costose, quasi mitiche. Ai piedi di Irschen, un piccolo villaggio delle Alpi abitato da uno sparuto numero di anime, collocato in media montagna, in una posizione soleggiata (condizioni perfette per la coltivazione delle erbe medicinali e delle piante selvatiche che, infatti, abbondavano, perciò era chiamato “ villaggio delle erbe”), Johanna, una giovane Herbaria, dopo la morte dei suoi genitori viveva con la nonna, una saggia guaritrice che, ormai, non aveva più le forze per esercitare il suo mestiere. Era da lei che aveva ereditato la passione per le erbe e le piante medicinali, appreso le conoscenze sulle loro proprietà, sull’utilizzo e sulla preparazione di medicamenti naturali. Ma Johanna era diversa dalle altre speziali, non si accontentava delle erbe locali, era affascinata dai racconti di mercanti e pellegrini su spezie esotiche come il pepe, la noce moscata e, soprattutto, il cinnamomo, dall’ aroma secco e pungente simile a quello dei chiodi di garofano (altra spezia antica e pregiata), sulle cui proprietà tanto si favoleggiava, presente soltanto sulle tavole di nobili e aristocratici, perciò chiamata la spezia “da re”. Un giorno, soccorso da alcuni giovani del posto, al villaggio arrivò, quasi del tutto privo di forze, un cavaliere scampato a una cruenta battaglia. Era ferito gravemente, febbricitante, e aveva bisogno di cure. In cambio dell’aiuto offriva un sacchetto di monete d’oro. Fu portato da Johanna che, però, nonostante gli avesse subito lavato le ferite con vino e aceto per disinfettarle, applicato impacchi di acqua e aceto sulla fronte, sui piedi e ai polsi per far scendere la febbre, e somministrato un decotto di camomilla, calendula e melissa dalle proprietà antinfiammatorie, curative e calmanti, non riusciva a guarirlo. Allora chiese consiglio alla nonna, che le disse che c’era un unico rimedio per curargli le ferite infette e salvargli la vita, fargli mangiare una focaccia con il cinnamomo, molto raro a trovarsi, ma potente ed efficace contro le infezioni ostinate e capace di guarire numerose malattie. A differenza di altre droghe da cucina, il cinnamomo non si otteneva dal seme o dal frutto, bensì dal fusto e dai ramoscelli dall’ aspetto simile a una piccola pergamena color nocciola, che, una volta liberata del sughero esterno e trattata, era possibile usare sbriciolata al momento dell'uso, oppure in polvere. Adoperata in cucina, nella preparazione di cibi sia dolci che salati, dalla sua corteccia macerata in acqua marina e, successivamente, distillata, si otteneva anche un liquido contenente un valido principio medicamentoso, l’ aldeide cinnamica, efficace antibatterico, antimicrobico, antifungino, antivirale, antispastico, antinfiammatorio e analgesico. Purtroppo questa rara spezia originaria dell’Oriente, dalla storia millenaria, già citata nella Bibbia e nel libro dell'Esodo, usata dagli antichi Egizi come profumo e per le imbalsamazioni, nota anche nel mondo greco e latino, non si trovava facilmente, però lei sapeva per certo che i frati del monastero che vivevano dall’altra parte della valle avevano nel loro orto un esemplare dell’ albero sempreverde, dalle foglie di forma ovale e allungata, con fiorellini bianchi, dalla quale si ricavava. Questi monaci, erboristi e speziali, nel loro orticello coltivavano, raccoglievano e utilizzavano le piante officinali, selezionando e preparando rimedi naturali come decotti, infusi, tinture ed elisir, soprattutto per curare sé stessi, essendo la loro una comunità religiosa dedita alla vita contemplativa e all'autosufficienza, isolata dal mondo esterno, ma non rifiutavano di aiutare i pellegrini e i poveri, e chiunque avesse bisogno. Allora Johanna, che era una ragazza avida di conoscenze, e pure ostinata, nonostante le proteste della nonna che, temendo le insidie del viaggio, soprattutto per una donna, aveva cercato di dissuaderla, decise che sarebbe andata al monastero per cercare di ottenere un po’ di cinnamomo. Per prudenza si vestì da uomo, nascose i lunghi capelli legandoli all’indietro, indossò camicia, tunica e brache larghe e lunghe fino alle caviglie trattenendole in vita con un cordone, un lungo mantello di lana grezza con cappuccio che la copriva interamente, calzò un paio di robusti stivali, fece un piccolo fagotto con le cose che le sarebbero servite durante il viaggio, raccomandò il giovane ferito alla nonna e se ne partì. Era primavera, lieve nell’aria si diffondeva il profumo dei fiori freschi spuntati fra i prati alpini e l’aroma delle erbe che durante l’inverno avevano dormito sotto una spessa coltre di neve. Rallegrata dallo spettacolo della natura rinverdita, e fiduciosa che i monaci non le avrebbero negato il loro aiuto, oltrepassato il ponte, senza esitare (ne andava di mezzo la vita di un uomo), Johanna si addentrò nel bosco che l’avrebbe portata dall’altra parte della valle. Durante il cammino incontrò degli eremiti che conoscevano erbe rare, ma non il cinnamomo e non sapevano indicarle la strada per il monastero, e poi dei mercanti, che vendevano tante spezie, ma non il cinnamomo, e nemmeno loro conoscevano quel monastero. Uscita dal bosco, arrivata fra i campi, Johanna s’imbatté in una contadina che, invece, lo conosceva, le disse che si trattava di un monastero benedettino, l’Abbazia di Sankt Paul, immerso nella bassa valle, collocato su una roccia, con un orto di erbe aromatiche, e le indicò la strada per arrivarci. Subito Johanna vi si precipitò. Finalmente al monastero, accolta dall’abate e dagli altri monaci con affabilità e cortesia, raccontò loro che era in cerca del cinnamomo per salvare un cavaliere ferito. Allora il monaco più anziano, custode dell’orto, le rivelò di avere quella spezia che, però, lui chiamava “cannella”, e non solo gliene fece dono, in forma di frammento di corteccia scura, dal profumo inebriante, da sbriciolare in polvere all’occorrenza, ma le rivelò anche le istruzioni per ben adoperarla. E le diede anche una raccolta di ricette, fra le quali, aggiunse, ne avrebbe trovata una per preparare il “cibo di Dio”, un pasto che portava pace e amore. Prima di consumarlo, però-si raccomandò il monaco-doveva recitare per tre volte questo versetto: Sette volte al giorno io ti lodo, Signore! Inoltre le diede da piantare nel suo orto semi di altre erbe e spezie ancora più rare, dalla gente ignorante, superstiziosa e diffidente verso le “arti oscure” ritenute tossiche, ma che, nel giusto dosaggio, lenivano dolori e afflizioni. Johanna, riconoscente, offrì al monaco il sacchetto di monete d’oro che aveva ricevuto dal cavaliere ferito, ma quello accettò una sola moneta come obolo per la sua comunità.
Ritornata al suo villaggio, velocemente, dato che ora conosceva la strada, ma anche per il timore di non riuscire a trovare vivo il cavaliere, con gioia Johanna constatò che quello giaceva ancora ferito, gravemente, ma non in punto di morte. Lesta lesta si diede da fare per usare il cinnamomo, così come le aveva spiegato il monaco, poi si sarebbe dedicata a piantare i nuovi semi nel suo orto. Con le sue mani impastò farina di castagne, acqua, miele, cinnamomo sbriciolato e altri ingredienti segreti, e preparò una focaccina che somministrò personalmente a pezzetti al cavaliere ferito. Inoltre, con il cinnamomo preparò anche un ippocrasso, un vino speziato, ottenuto dall'infusione di spezie in vino rosso, con l'aggiunta di miele, chiodi di garofano, zenzero e cardamomo, e gliene fece bere un po’ a piccoli sorsi. Ventiquattro ore dopo la febbre cominciò a scendere e l’infezione delle ferite a regredire. Al risveglio dal brutto incubo, ripresosi, il cavaliere si rivelò dolce e gentile e confidò a Johanna di avere un grande cruccio: la violenza del popolo al quale apparteneva, mentre lui aspirava solamente alla pace. Allora Johanna. si ricordò del “cibo di Dio” portatore di pace, del quale le aveva parlato il monaco. Cercò la ricetta, si procurò le erbe necessarie indicate, che non conosceva ma che, ormai, erano spuntate nel suo orto, impastò tutti gli ingredienti, farina, uova, vino allungato con mosto cotto e aromatizzato con frutta, mandorle, cinnamomo e altre spezie profumate, e formò un dolce al quale diede la forma di una colomba, poi lo consegnò al cavaliere quando se ne partì, dopo avergli raccomandato di fare in modo che lo mangiassero tutti i capi del suo governo e di non mancare di recitare per tre volte il versetto: Sette volte al giorno io ti lodo, Signore! Il sole cominciava a levarsi nel cielo in un gioco di colori meravigliosi quando il cavaliere, a malincuore, si congedò da Johanna, ed anche lei si dispiacque tanto della separazione. Tornato dal suo popolo, il cavaliere fece un bel discorso di pace ai capi di governo e poi offrì loro il dolce che, miracolosamente, raddolcì gli animi e piacque talmente tanto che decisero che sarebbe diventato il dolce tradizionale del loro paese. Questo dolce, raffigurante l’uccello simbolo della riconciliazione, fu, infatti, adottato per celebrare ogni anno l’acquisita pace e da allora venne chiamato semplicemente “Pan colomba”. Ma la storia non finisce qui, perché il cavaliere, assalito da una forte nostalgia per Johanna, desideroso di rivedere il suo bel viso roseo incorniciato da lunghi capelli ramati, i suoi occhi verdi limpidi e sinceri, tornò da lei e, accertato che anche la giovane provava i suoi stessi sentimenti, si dichiarò e la chiese in moglie alla nonna, che non esitò ad accordargli la mano della cara nipote. E Johanna fu ben felice di sposare Stefan (così si chiamava il suo cavaliere), che aveva imparato ad apprezzare mentre lo curava, e insieme vissero tanti anni in gioia e serenità. Quel dolce, “il cibo di Dio”, si rivelò, allora, proprio come aveva detto l’anziano monaco: portatore di pace e di amore.
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