Francesca Santucci

Il ratto del liceo

(racconto vincitore nel 1999 al concorso  “Osio scrive– Tornare a scuola emozionati da un ricordo", Osio sotto, BG, e inserito nell’antologia collettiva “Scrivendo racconto”, Historica 2014)

 

Quod in iuventute non discitur, in matura aetate nescitur.1
                                         
(Cassiodoro, Variae, 1,24)


Persiane scolorite, dal balcone della presidenza un tricolore sbiadito svettante sul pennone, nel cortile acacie rinsecchite e pioppi dai colori smorti, corridoi lunghi, tetri e silenziosi, pavimenti di marmo ben netti, lucidi, a specchio, con losanghe bianche, con losanghe nere, qualche busto dei grandi del passato, Cicerone, Dante, Alfieri, Manzoni, in un edificio vecchio, quasi fatiscente, muri che il tempo aveva reso grigi come le pianure del nord nei giorni di nebbie novembrine, intonaci scrostati, sezioni solo femminili, alunne serie di buona famiglia, insegnanti severi un poco appannati dall’età, bidelli scrupolosi dai capelli bianchi con le spalle curve dentro ai grembiuli neri.
In quel liceo classico tutto era fermo, immobile ed eguale, tutto solo in bianco e nero come la stampa di una bella veduta d’altri tempi.
Anche il preside, da anni, forse da secoli, era sempre lo stesso e sempre simile a se stesso: la testa pelata, secondo una certa immagine virile del passato, baffetti corti, pizzetto ben curato onor del mento, occhiali spessi, camicia immacolata odorosa di stantio e di sapone di Marsiglia, farfallino a pois ormai desueto, vestito grigio scuro d’autunno e d’inverno, grigio chiaro in primavera e d’estate, le scarpe di copale ben lucide.
Anche i professori non cambiavano mai e si assentavano raramente; non senza una picca d’orgoglio alcune allieve raccontavano in giro di avere gli stessi insegnanti che erano stati insegnanti dei loro genitori.
Tutto, dunque, sempre uguale, lì non arrivava nemmeno l’eco delle proteste dei giovani per strada, dei cambiamenti allora in atto nella società, forse per questo una mano anonima, un giorno, aveva impresso una scritta sulla parete esterna dell’edificio; diceva:
-“Questo liceo è triste e buio”!-
Ma qualcuno si era affrettato a rispondere:
-“No, non lo è. Lo rischiara la luce del sapere”!-
Ed era vero. I grigi professori si rivelavano insegnanti eccellenti, entusiasti ed entusiasmanti, le materie erano estremamente interessanti, le spiegazioni esaltanti ed esaltante lo studio: le grotte di Lascaux, l’Egitto misterioso, la lineare A e la lineare B, la civiltà della Grecia antica, culla del pensiero occidentale, Socrate che sa di non sapere e muore per la Verità, Diogene di Sinope che con una lanterna erra alla ricerca dell’uomo, Alessandro il grande che anche in guerra si fa accompagnare dai filosofi.E poi i Romani, oh, sì, qualcuno li dirà invasori ed aggressori, ma quale sincera esultanza dinanzi a Roma caput mundi e fino ai confini del mondo con Traiano!
Furono, quelli, davvero anni di studio leopardianamente matto e disperatissimo, ma non ci fu bisogno, come per l’Alfieri, di farsi legare ad una sedia per affrontarli, perché si era guidati dalla sete della conoscenza, dal desiderio di sconfiggere l’ignoranza aprendo la porta verso l’infinito sapere, secondo la lezione di un altro grande: Galileo. E poco importava se la scuola era malandata e i professori anziani!
Col suo bel nome ottocentesco quell’anno giunse nella nostra classe Ombretta; chioma fiammeggiante, frangetta sbarazzina, chiari occhi celesti un po’ furbini in un viso pieno di lenticchie, sorriso aperto e schietto. Ripetente, non molto portata per lo studio, non di grande intelligenza, ma non sciocca, forse solo un poco tarda nel capire.
-“Che bel nome, insolito per i nostri tempi. Come mai?”- chiese curiosa la professoressa di Latino accomodandosi gli occhiali sopra il naso adunco.
- “Ol mé pàder... “-2

- “Parla in italiano... “-
-“Mio padre è tifoso di Antonio Focazzaro, quello che ha scritto "Piccolo mondo antico" … “Dice che la protagonista…-
-“Sì, sì, bene, bene, ma non si dice tifoso, si dice estimatore, cultore, appassionato … e Fogazzaro, non Focazzaro... Comunque è nel programma dell’ultimo anno … Non so nemmeno se ci arriverete a trattarlo!”- Tagliò corto l’insegnante passando ad altro.
Questo fu il debutto di Ombretta sul palcoscenico del liceo classico dove, in cinque anni, si alternarono i più svariati, coloriti e variopinti personaggi, sia nel corpo insegnante sia nella multiforme massa delle scolare. Molte allieve si persero lungo il cammino (ma è noto che la via che conduce al sapere è lastricata di ostacoli), di alcune si conserva un bel ricordo, di altre si è dimenticato anche il cognome, indelebile resta quello di Ombretta, per la ventata d’involontaria allegria che portò nel compassato e prevedibile liceo di quegli anni.
Chi ama il latino lo ama per sempre, al contrario, chi non lo ama non lo amerà mai. E chi ama il latino lo capisce subito, chi non lo ama non lo capirà mai. Ombretta non lo amò e non lo capì, mai e da subito. Gli antichi poeti greci dicevano: Ta patemata matemata!, le sofferenze sono insegnamenti. Parafrasando oserei dire che l’insegnamento è una sofferenza, o che almeno tale può diventare per l’insegnante che abbia la sfortuna di imbattersi in un alunno sordo all’apprendimento, o per lo meno non votato allo studio dei classici.
Ritornando ad Ombretta, dopo aver, più o meno con regolarità, tra i dileggi e gli scherni delle compagne di classe ed i rimproveri dell’insegnante, un po’ incasinato i casi, declinato a vanvera, flesso i verbi alla bell’e meglio, confuso i parisillabi con gli imparisillabi, i passivi con i deponenti, homo-hominis e omnis-omne, scambiato semplici plurali per pluralia tantum, chiamato ripetutamente Luigino lo scrittore Igino, raggiunse il culmine del caos più completo inciampando malamente nella versione dal latino "Il ratto di Proserpina" già preceduta da un’altra non agevole traduzione sullo stesso tema, "Il ratto delle Sabine".
Insensibile al destino di Proserpina, rapita dallo zio Plutone mentre raccoglieva i fiori della primavera (rapta, in latino, da cui raptum, ratto, appunto, ma non ratto – topo, bensì ratto – rapimento), sorda al dolore di Cerere che cercò la figlia per nove giorni e nove notti per mare e per terra (Diu Ceres omnia loca clamoribus et querelis implevit), si ostinava a chiedere:
 -“ Ma il ratto dov’è?”-
E le compagne la zittivano con occhiatacce eloquenti.
Infine l’inopportuna domanda giunse anche alle orecchie dell’insegnante che si era fin lì profusa in un’enfatica spiegazione del rapimento, sottolineando gli aspetti drammatici del contenuto della versione ma anche fornendo spiegazioni tecniche ed interpretative della struttura del linguaggio, soffermandosi proprio sul significato del verbo rapio ed insistendo su come l’ingenua fanciulla rapta erat da quel brutalone di Plutone, re degli Inferi.
Scuotendo i bei capelli rossi insistente ancora Ombretta chiedeva:
-“Sì, ma il ratto dov’è?”-
L’insegnante trattenne un lungo respiro, con gli occhi sbarrati, le gote infiammate di rabbia repressa, fu lì lì per esplodere in un aspro rimprovero che sarebbe rimbombato per tutta l’aula, per tutta la scuola, più acuto delle urla di dolore di Proserpina, poi, inaspettatamente, sotto l’occhio atterrito della scolaresca, scoppiò in una potente risata che contagiò l’intera classe, eccetto Ombretta che conservava ancora l’interrogativo nello sguardo, e così si espresse:
-“Domàndeghel a to pàder”. 3
Dopo quella ventata d’ilarità collettiva, che mai più, in futuro, si sarebbe ripetuta, l’insegnante riprese l’abituale contegno e ordinò:
 -“Continuate a tradurre”!-
In un ultimo disperato tentativo la ragazza testarda, e non sdegnosa come quella del Mississipi, rivolse nuovamente alle compagne l’ossessiva domanda, ma quelle, per tutta risposta, le tirarono fuori la lingua. Allora Ombretta non chiese più e da quel giorno, sul giallo dell’antichità, scese un assoluto silenzio, non avendo il coraggio, né l’insegnante né le alunne, di ritornare sull’argomento.
Non ho dubbi che anche oggi, ovunque si trovi, dovunque la vita l’abbia poi condotta, se talvolta il pensiero le ritorna agli anni della scuola, ancora si arrovelli il cervello chiedendosi ostinata:
-“Ma il ratto dov’è”?-

 

1) Ciò che non s’impara in gioventù, in vecchiaia non lo si sa.

2) Mio padre (in dialetto bergamasco).

3) Chiedilo a tuo padre. 

 

 

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