Francesca Santucci

IL VECCHIO DELLE ACACIE

(dall'antologia AA.VV., “Dentro l'amore”, edizioni  Demian 2016)

Le petit paresseux (1755), Jean-Baptiste Greuze

 

 

In paese tutti conoscevano Franz, il vecchio dal buffo pizzetto bianco sotto il mento e gli spessi occhialini da miope. Per circa quarant’anni era stato il maestro del paese, ma quelli che lo avevano conosciuto giovane o erano troppo vecchi per ricordarselo o non potevano più raccontarlo perché già da tempo riposavano sotto le bianche croci. Da quando aveva smesso d’insegnare viveva da solo subito fuori al villaggio, in una casetta con le tegole rosse scolorite dal sole, sbiadite dal tempo, che guardava il fiume da lontano.
La vegetazione circostante era costituita prevalentemente da tigli e acacie, soprattutto queste ultime abbondavano, coperte in primavera di teneri fiorellini che esplodevano in profumi meravigliosi e nutrivano con il loro dolce nettare le api allevate dal vecchio, che riusciva, così, a produrre un miele davvero squisito. Per questo motivo la gente, dimentica della sua attività, ormai lo identificava con quegli alberi e lo chiamava “il vecchio delle acacie”, e solo qualcuno ricordava che un tempo era stato un maestro.
Simone, un bambino curioso, era affascinato dall’idea che quel vecchio canuto vestito da contadino un giorno avesse insegnato l’aritmetica e la grammatica, la storia dei Romani e dei Longobardi, la geografia e la scala musicale, proprio come ora faceva la sua maestra, per questo talvolta, eludendo la sorveglianza della sua mamma, riusciva a spingersi fino alla sua casa. E al vecchio non dispiaceva la compagnia di questo ragazzino un po’ svogliato, ma d’intelligenza pronta, che, di tanto in tanto, lo sottraeva alla solitudine cui si era votato in età avanzata. Da parte sua Simone era ben felice di poter curiosare tra i libri impolverati, le carte ingiallite, e pure di poter guadagnare delle lezioni supplementari a quelle scolastiche, chiarimenti su argomenti che bene non aveva compreso a scuola o che a scuola non s’insegnavano. E fu con lui che, finalmente, comprese la magia delle divisioni (così ostiche!), e sempre da lui apprese le cause della decadenza dell’Impero romano e dell’estinzione dei dinosauri, ed anche il significato delle mirabili elaborazioni umane come la Poesia, la Pittura, la Musica.
D’estate, al fresco d’un tiglio fronzuto collocato nel cortile della cascina, il capo poggiato sulle gambe del maestro, Simone chiedeva:
-Maestro, cos’è la Fantasia?-
Il vecchio indicava il cielo e rispondeva:
- È la nuvola rosa, quando dimentichi che è una nuvola e ti sembra che assomigli ad un fiore.-
-E la Poesia? Maestro, cos’è la Poesia?-
-La Poesia è l’armonico pensierino che scrivi sul tuo quaderno, dettato dalla sensazione che la visione di quella nuvola e di quel fiore ha fatto scaturire nel tuo cuore.-
-E la Pittura, cos’è la Pittura?-
- È quel pensierino scritto non sul foglio ma sulla tela bianca mescolando i colori sulla tavolozza in meravigliose sfumature.-
-E l’Amore?
- L’Amore è un miracolo, una magia, è un sentimento disinteressato in cui si vuole solo il bene dell’altro, e si può provarlo per tutti gli esseri del Creato, ma attento, può essere anche dolore straziante, come quando si perde una persona cara. Ricorda, però, che nessuno muore mai tutto se resta nel cuore di chi ci ama.-
-E la Musica?-incalzava allora il bambino.
Il maestro restava qualche istante pensieroso e poi, agitando la mano nell’aria come se l’accarezzasse, rispondeva:
-Il vento che senti stormire fra gli alberi è la voce di Dio, e quella è la Musica!-Simone, soddisfatto delle spiegazioni, si scuoteva dal torpore assorto con cui aveva seguito la lezione, rialzava la testa, baciava la guancia del vecchio e scappava via, soffermandosi, lungo la strada che lo riportava a casa, a guardare le nuvole, i fiori, e ad ascoltare la voce del vento.
Qualcuno per strada, vedendolo così distratto, lo ammoniva.
-Non guardare per aria, fissa la strada oppure inciamperai!-
E il bambino, fiero e baldanzoso, rispondeva:
-Questa non è una strada, è un piccolo fiume che scorre tranquillo, e questi non sono i miei piedi, ma una barchetta che mi condurrà alla foce dov’è la mia casa, e lungo il tragitto m’accompagna la voce di Dio!-
Ben presto la mamma scoprì la meta delle fughe del figlio, ma non ne fu contrariata, anzi, e cominciò a mandare al vecchio dei piccoli doni, come un pezzo di formaggio, una fetta di torta, della frutta, che l’uomo ricambiava col suo prezioso miele d’acacia.
Trascorse qualche anno e Simone diventò il più bravo della scuola, e anche se ora erano subentrate delle distrazioni, come le corse in bicicletta e le partite al pallone, le sue visite al maestro continuavano con regolarità.
Con voce ogni volta sempre più tremolante lui gli diceva:
-Ragazzo, perché ti ostini a tornare? Ormai non ho più nulla da insegnarti!-
Ma Simone scuoteva con decisione la testa, sorrideva e sempre ritornava perché gli voleva bene, perché al maestro le sue visite erano gradite, ed anche perché sentiva che aveva ancora bisogno dei suoi insegnamenti.
Un pomeriggio, però, tardò all’appuntamento e, come animato da uno strano presentimento, in prossimità della casetta affrettò il passo. Vi giunse con le gote rosse, i capelli in disordine, le ginocchia ferite perché due volte aveva inciampato. Il suo maestro era là, seduto sotto il tiglio, con la testa reclinata sul petto, un libro aperto sulle ginocchia: sembrava dormisse.
Simone gli si avvicinò, lo chiamò adagio, lo scosse lievemente: il capo del maestro si chinò ancor più in avanti. Gli sollevò la testa e gli tolse gli occhiali e vide due occhi celesti e immobili che fissavano un punto indefinibilmente lontano: chissà cosa guardavano, pensò per un istante il ragazzo realizzando che era morto!
Allora, all’idea della perdita, per un istante un dolore violento sembrò squarciargli il petto, ma subito lo represse perché si ricordò di una spiegazione che un giorno l’uomo gli aveva dell’Amore e della Poesia, e si disse che il vecchio sembrava morto, ma che in realtà era vivo, come la nuvola che se sembra un fiore tale diventa.
E fu così che scrisse la sua prima poesia, una ballata che intitolò: “Il vecchio delle acacie”.

 

 

 

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