Aveva trascorso tutto l’inverno in un giardino di rose mamma capinera ma,
ora che i primi tiepidi raggi di sole timidamente accarezzavano i
ciuffetti di primule nei prati e i rami degli alberi cominciavano a
ingemmarsi, era giunto il tempo di preparare il nido per accogliere i suoi
figli, quando le uova che avrebbe covato si sarebbero dischiuse e, con le
loro testoline nere, grigie o marroncine, le creaturine avrebbero fatto
capolino nel mondo implorando con le loro larghe bocche il nutrimento.
Papà
capinera, da grande lavoratore qual era, famoso tra gli altri uccelli
proprio per la sua abilità di costruttore, si dava un gran da fare per
intessere il nido, che doveva essere non solo ben intrecciato, con un
giaciglio morbido e comodo, e collocato in modo da ricevere sufficiente
luce e calore utili alle uova e alla nidiata, ma anche sicuro, per
proteggere dalle insidie degli altri uccelli molesti e riparare
adeguatamente dall’agguato delle percosse del vento e delle infiltrazioni
dell’acqua piovana che avrebbero potuto o farlo cadere o bagnarlo. Col suo piacevole chiacchiericcio, ricco di gorgheggi, festosamente
modulava il suo dolce canto mamma capinera, seguendo il compagno nei suoi
voli qui e là tra il fogliame di alberi e cespugli, in cerca del materiale
occorrente per preparare il nido, fili d’erba e di paglia, tenere
foglioline, lanugine, ma, un giorno, di colpo smise il canto, perché una
rosa d’incomparabile bellezza, fiorita solitaria fra le sue sorelle ancora
in boccio, aveva catturato la sua attenzione, non perché fosse già
fiorita, si sa, le rose non temono il gelo, e ci sono anche quelle che si
mostrano molto prima dell’arrivo della primavera, ma perché sembrava
triste e sconsolata. Infatti, invece di offrire orgogliosa alle carezze
del sole i suoi mille petali profumati, se ne stava cupa a sospirare.
La capinera, incuriosita, con agili balzelli, saltellando fra i rami del
roseto, la raggiunse, le si accostò e si accorse che i suoi bei petali
erano imperlati di minuscole goccioline, ma non erano rugiada del mattino,
erano lacrime. Allora, turbata, sporgendosi verso di lei, con dolcezza le
chiese il motivo della sua tristezza.
La rosa, che sentiva il bisogno di aprire il suo cuore, confidò alla
capinera la sua pena, le disse che sapeva
di essere il fiore più bello del creato, che i suoi petali erano
vellutati, i suoi profumi così intensi da essere amati anche dal vento,
che li portava con sé ovunque nelle sue lunghe corse, ma che riteneva una
grande ingiustizia che le fossero state date le spine. Tutti la
ammiravano, intessevano le lodi della sua straordinaria bellezza e si
compiacevano delle sue delicate fragranze, però, poi, quando si
avvicinavano e scoprivano che aveva le spine, subito si allontanavano e
rivolgevano la loro attenzione a fiori più modesti ma privi d’insidie,
come le violette e i garofani, i giacinti e le margherite, le dalie e le
peonie. Anche le api che le ronzavano intorno in cerca del prezioso
nettare, che lei volentieri metteva a disposizione, si agitavano caute per
suggere, e pure le farfalle, che
le si avvicinavano
per l’identico scopo delle api, erano guardinghe nel timore di ferirsi le ali di seta, e
persino gli uccelli che empivano il cielo di canti melodiosi, quando
capitava loro di abbassarsi in volo per acciuffare su un ramo un vermetto
da poter mangiare, smettevano i canti e, con prudenza, la aggiravano
intimoriti dalle sue spine.
Allora la capinera, commossa, con il becco raccolse una fogliolina e le
asciugò le lacrime, poi così le parlò. _"Rosa, bella rosa, non devi essere triste. Se tu sapessi quanto mi sei
d’aiuto con le tue spine!”- La rosa, incredula e stupita, chiese alla capinera:
-“Non comprendo … com’è possibile che le mie spine, che tutti evitano per
il timore di potersi ferire, e che io stessa detesto, possano esserti
d’aiuto?”- -“Vedi- replicò il grazioso uccellino- se non fosse per te, io non potrei
proteggere così bene le mie creature, che vedono la luce (come vuole la
natura) due volte l’anno, a maggio e a giugno. Con le tue spine tu
trattieni la lanugine di tanti vegetali (foglie, petali di fiori), ed
anche di qualche animale di passaggio, che il mio compagno viene a
raccogliere e poi deposita nel nido che insieme prepariamo per i nostri figliolini, perciò è grazie a te che possiamo offrire loro una morbida
culla che possa proteggerli dai pericoli dei predatori, dal freddo della notte,
dalla furia del vento e dalle improvvise pioggerelline primaverili.
Considera che ogni cosa in natura ha un senso, predisposta dall’alto in
perfetta catena per servire l’un l’altro in armonia tutti gli esseri del
creato. Dalla creatura più appariscente al più infimo degli insetti,
ciascuno ha una propria utilità, una ragione di esistere; il sole serve a
riscaldare e a illuminare la terra, la pioggia a bagnarla, il vento a
sgombrare il cielo dalle nuvole, gli insetti a trasportare il polline fecondatore da un fiore all’altro,
il seme a consentire lo sviluppo della pianta, il fiore a generare il
frutto, dunque, se il Signore ha voluto donarti le spine, è perché
fossero di utilità a me e agli altri uccelli, perciò, più non
disprezzarle, e amale come ami i tuoi petali.”- La rosa, allora, comprese, e da quel giorno mai più disprezzò le sue
spine, anzi, pensando all’utilità che avevano per quei piccoli esserini
piumati, le divennero più care dei suoi stessi petali, ed ogni volta che
vedeva mamma capinera, papà capinera e i suoi figlioletti sfrecciare alti
sul suo capo, gorgheggiando felici nei loro voli brevi e ondulati, non
mancava mai di commuoversi e di ringraziare il Signore per averle dato
anche le spine.
clic per ingrandire
|