Francesca Santucci

 

LA CAPINERA E LA ROSA

 

(dall'antologia AA. VV., "Scarpetta rosa", Apollo edizioni 2016)

 

 

Aveva trascorso tutto l’inverno in un giardino di rose mamma capinera ma, ora che i primi tiepidi raggi di sole timidamente accarezzavano i ciuffetti di primule nei prati e i rami degli alberi cominciavano a ingemmarsi, era giunto il tempo di preparare il nido per accogliere i suoi figli, quando le uova che avrebbe covato si sarebbero dischiuse e, con le loro testoline nere, grigie o marroncine, le creaturine avrebbero fatto capolino nel mondo implorando con le loro larghe bocche il nutrimento.
Papà capinera, da grande lavoratore qual era, famoso tra gli altri uccelli proprio per la sua abilità di costruttore, si dava un gran da fare per intessere il nido, che doveva essere non solo ben intrecciato, con un giaciglio morbido e comodo, e collocato in modo da ricevere sufficiente luce e calore utili alle uova e alla nidiata, ma anche sicuro, per proteggere dalle insidie degli altri uccelli molesti e riparare adeguatamente dall’agguato delle percosse del vento e delle infiltrazioni dell’acqua piovana che avrebbero potuto o farlo cadere o bagnarlo.
Col suo piacevole chiacchiericcio, ricco di gorgheggi, festosamente modulava il suo dolce canto mamma capinera, seguendo il compagno nei suoi voli qui e là tra il fogliame di alberi e cespugli, in cerca del materiale occorrente per preparare il nido, fili d’erba e di paglia, tenere foglioline, lanugine, ma, un giorno, di colpo smise il canto, perché una rosa d’incomparabile bellezza, fiorita solitaria fra le sue sorelle ancora in boccio, aveva catturato la sua attenzione, non perché fosse già fiorita, si sa, le rose non temono il gelo, e ci sono anche quelle che si mostrano molto prima dell’arrivo della primavera, ma perché sembrava triste e sconsolata. Infatti, invece di offrire orgogliosa alle carezze del sole i suoi mille petali profumati, se ne stava cupa a sospirare.
La capinera, incuriosita, con agili balzelli, saltellando fra i rami del roseto, la raggiunse, le si accostò e si accorse che i suoi bei petali erano imperlati di minuscole goccioline, ma non erano rugiada del mattino, erano lacrime. Allora, turbata, sporgendosi verso di lei, con dolcezza le chiese il motivo della sua tristezza.
La rosa, che sentiva il bisogno di aprire il suo cuore, confidò alla capinera la sua pena, le disse che s
apeva di essere il fiore più bello del creato, che i suoi petali erano vellutati, i suoi profumi così intensi da essere amati anche dal vento, che li portava con sé ovunque nelle sue lunghe corse, ma che riteneva una grande ingiustizia che le fossero state date le spine. Tutti la ammiravano, intessevano le lodi della sua straordinaria bellezza e si compiacevano delle sue delicate fragranze, però, poi, quando si avvicinavano e scoprivano che aveva le spine, subito si allontanavano e rivolgevano la loro attenzione a fiori più modesti ma privi d’insidie, come le violette e i garofani, i giacinti e le margherite, le dalie e le peonie. Anche le api che le ronzavano intorno in cerca del prezioso nettare, che lei volentieri metteva a disposizione, si agitavano caute per suggere, e pure le farfalle,  che le si avvicinavano per l’identico scopo delle api, erano guardinghe nel timore di ferirsi le ali di seta, e persino gli uccelli che empivano il cielo di canti melodiosi, quando capitava loro di abbassarsi in volo per acciuffare su un ramo un vermetto da poter mangiare, smettevano i canti e, con prudenza, la aggiravano intimoriti dalle sue spine.
Allora la capinera, commossa, con il becco raccolse una fogliolina e le asciugò le  lacrime, poi così le parlò.
_"Rosa, bella rosa, non devi essere triste. Se tu sapessi quanto mi sei d’aiuto con le tue spine!”-
La rosa, incredula e stupita, chiese alla capinera:
-“Non comprendo … com’è possibile che le mie spine, che tutti evitano per il timore di potersi ferire, e che io stessa detesto, possano esserti d’aiuto?”-
-“Vedi- replicò il grazioso uccellino- se non fosse per te, io non potrei proteggere così bene le mie creature, che vedono la luce (come vuole la natura) due volte l’anno, a maggio e a giugno. Con le tue spine tu trattieni la lanugine di tanti vegetali (foglie, petali di fiori), ed anche di qualche animale di passaggio, che il mio compagno viene a raccogliere e poi deposita nel nido che insieme prepariamo per i nostri figliolini, perciò è grazie a te che possiamo offrire loro una morbida culla che possa proteggerli dai pericoli dei predatori, dal freddo della notte, dalla furia del vento e dalle improvvise pioggerelline primaverili. Considera che ogni cosa in natura ha un senso, predisposta dall’alto in perfetta catena per servire l’un l’altro in armonia tutti gli esseri del creato. Dalla creatura più appariscente al più infimo degli insetti, ciascuno ha una propria utilità, una ragione di esistere; il sole serve a riscaldare e a illuminare la terra, la pioggia a bagnarla, il vento a sgombrare il cielo dalle nuvole, gli insetti a trasportare il polline fecondatore da un fiore all’altro,
il seme a consentire lo sviluppo della pianta, il fiore a generare il frutto,  dunque, se il Signore ha voluto donarti le spine, è perché fossero di utilità a me e agli altri uccelli, perciò, più non disprezzarle, e amale come ami i tuoi petali.”-
La rosa, allora, comprese, e da quel giorno mai più disprezzò le sue spine, anzi, pensando all’utilità che avevano per quei piccoli esserini piumati, le divennero più care dei suoi stessi petali, ed ogni volta che vedeva mamma capinera, papà capinera e i suoi figlioletti sfrecciare alti sul suo capo, gorgheggiando felici nei loro voli brevi e ondulati, non mancava mai di commuoversi e di ringraziare il Signore per averle dato anche le spine.

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