Francesca Santucci

 

 

L’AMORE SVENTURATO DI IMELDA E BONIFACIO

 

(dall'antologia AA.VV., “Racconti  storici”, Historica edizioni 2023)

 

 

 

 

 

[…] e mentre piangendo si doleva della morte di Bonifacio, passandole il veleno al cuore, cadde Imelda morta tra le braccia del morto amante.

(Cherubino Ghirardacci, “Historia di Bologna”)

 

 

 

Quanto vado a raccontarvi non è fantasia o menzogna, è storia realmente accaduta, di un sentimento autentico e puro sbocciato fra due giovani d’animo gentile, crudelmente troncato in tempi cupi di violente lotte civili e fratricide. Se fino ad oggi sono rimasta muta su quegli accadimenti, mai con nessuno parlando di quanto fossero stati sciagurati  e dolorosi, è perché troppo grande è l'orrore di ciò che i miei occhi videro, ma il tempo trascorso non ha diminuito lo sgomento.
Allora, eravamo nel
1273, in Bologna spadroneggiavano due nobilissime e potentissime famiglie, acerrime nemiche, fieramente avverse, sempre in lotta fra loro perché appartenenti a due diverse fazioni politiche: i Geremei, ghibellini (sostenitori dell’Impero), e i Lambertazzi, guelfi (sostenitori del Papato), che si contendevano il predominio della città.
Io ero una giovinetta, al servizio di Orlando  dei Lambertazzi, mi occupavo di sua figlia Imelda, che aveva soltanto diciassette anni, più come compagna che come serva, non avendo lei sorelle, ma solo fratelli, giovani  terribili e temibili, sempre pronti alla rissa, e non soltanto in difesa delle loro idee politiche.
La seguivo come un'ombra, mai lasciandola sola, dormendo anche di notte ai piedi del suo letto. Ci svegliavamo alla stessa ora, destate dal suono delle campane azionate dai monaci della chiesa di
Santa Maria Maggiore,  insieme recitavamo le preghiere, insieme andavamo  alla Messa mattutina, poi tornavamo a casa, ci separavamo soltanto per il tempo di comunicare io gli ordini da impartire alle serve per la cucina, la spesa, il bucato e le altre faccende domestiche, e per l’ora del desinare, che vedeva tutti i Lambertazzi  riuniti per i pasti, sempre ricchi e vari, come si conveniva a una famiglia nobilissima , a base di carne, selvaggina,  insaccati, legumi, uova, formaggi, verdure, frutta fresca e canditi, dolci speziati e vino.
Di pomeriggio, sedute negli ampi sedili del palazzo turrito nel vano della finestra, ricamavamo o cucivamo lini o ci raccontavamo delle storie. A sera ci ritrovavamo per le preghiere della sera, recitate prima di coricarci.

La mia padroncina era una fanciulla bella e innocente, dalle forme delicate, snella, i lineamenti regolari, con lunghi capelli corvini, occhi neri sormontati da sottili sopracciglia ad arco, gote e  bocca rosee, denti candidi come perle, ma non era solo bella d’aspetto, era anche virtuosa e costumata, come si conveniva a una fanciulla del suo rango.

Per sua fortuna e, insieme, sventura, s'innamorò, ricambiata di un fiero avversario della sua famiglia, Bonifacio, figlio di Geremia dei Geremei. Alto, con  occhi celesti, la bionda chioma lunga inanellata che portava sciolta sulle spalle, due sottili baffetti sopra labbra morbide, brillante cavaliere, era un giovane che, al  gradevole aspetto, univa le virtù dell’animo: fierezza e lealtà.
L’appartenere a famiglie in odio fra loro non impedì alla bellissima Imelda d’innamorarsi ardentemente di Bonifacio, similmente rapito d’amore per lei, quando si conobbero al palio per la festa di San Pietro, una gara ippica che si svolgeva il 29 giugno in onore del Santo.

Bonifacio era ritornato a Bologna, per partecipare al palio, clandestinamente, dopo un lungo periodo di lontananza, esule perché bandito come rappresentante della parte avversa ai Lambertazzi che, invece, allora dominavano la città, ma lui , in tempi in cui gli uomini poco erano disposti alla pace, sempre coinvolti in zuffe, rappresaglie e battaglie, non amava la guerra e avrebbe voluto la pace.

Quel giorno, se possibile, Imelda era ancora più bella. Sul capo portava una coroncina di fiori dalla quale si dipartiva un lungo velo che le ricadeva ben oltre le spalle,  molto graziosamente incorniciando  il suo viso dalle gote rosate nel quale spiccavano i neri occhi vellutati. Nel corteo delle dieci vergini scelte fra le più carine della città e appartenenti alle più illustri famiglie, tutte vestite di candidi lini e pudicamente velate, che avanzavano con passo incerto, modeste e timorose della folla, su tutte primeggiava Imelda.

Quando gli sguardi dei due giovani s’incontrarono, rosseggiarono i loro volti e i loro cuori entrarono subito in sintonia: era nato l’amore.
Fu Bonifacio a  vincere la gara, fu Imelda a consegnargli il premio, cosa che non piacque  ai suoi fratelli, irascibili e sospettosi, che la rimproverarono aspramente per non essersi sottratta alla premiazione del loro nemico.
Ma non si comanda al cuore, che non intende ragioni, l'amore corre verso l'amore, e così i due giovani, noncuranti dell’ostilità fra le loro famiglie, riuscirono a trovare il modo per rivedersi, anche con la mia complicità, ché avrei dato la vita per la mia padroncina,  perciò non esitavo ad aiutarla.
E così, ogni volta che le circostanze erano favorevoli e lo permettevano, capitando spesso che i fratelli di Imelda si assentassero per affari o per combattere, i due innamorati correvano  l’uno nelle braccia dell'altro.
Riuscivano a trovare ogni  modo, ogni pretesto per incontrarsi, spingendosi Bonifacio di notte fin nella camera di Imelda, che sempre lo accoglieva con gioia e mai lo respingeva, entrambi ardentemente ansiosi di ritrovarsi a quei  segreti convegni, durante i quali, però, nemmeno una volta l’innamorato insidiò la virtù dell’amata, limitandosi a teneri baci, a dolci parole e promesse d’amore, attendendo paziente il momento giusto per poterla chiedere in sposa.
Bonifacio le sussurrava parole dolci come il mite vento che rallegrava la zona e,  d’animo gentile, le declamava anche versi d’amore, specialmente quelli di un poeta bolognese molto in voga a quei tempi, Guido Guinizzelli, che Imelda  non si stancava di ascoltare, alimentando, così, entrambi,la fiamma del sentimento:
Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asemblarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch'è lassù bello a lei somiglio.

Verde river' a lei rasembro e l'âre
tutti color di fior', giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch'abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa 'l de nostra fé se non la crede;

e no-lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c'ha maggior virtute:
null'om pò mal pensar fin che la vede.

 

Una notte, oltre alle dolci parole, per Imelda arrivò da Bonifacio la notizia che un frate suo amico era disposto ad unirli in un matrimonio, intanto,  segreto, che avrebbe suggellato la loro unione e, poi,  riappacificato le due famiglie rivali.

Imelda, pur desiderosa dell’unione, esitò, da un lato aveva sempre paura che i convegni d’amore potessero essere scoperti comportando tragiche conseguenze, dall’altro temeva di turbare quel precario equilibrio instauratosi.

Cominciò ad avere strani incubi, e una notte si svegliò urlando,  aveva sognato che dei cani feroci si avventavano sul suo Bonifacio e lo sbranavano: le parve un presagio di morte.

Infine Imelda acconsentì al matrimonio, che fu celebrato segretamente, ma la storia d’amore volgeva verso un tragico epilogo. Infatti, i due innamorati furono traditi da un servo che, scoperta l’unione, la rivelò agli spietati fratelli, i quali, fatta irruzione nella camera di Imelda, la sorpresero con Bonifacio.

Imelda fu imprigionata nella torre, Bonifacio fu catturato e trafitto al cuore con un pugnale avvelenato, poi il corpo fu trasportato nei sotterranei del palazzo e seppellito sotto il nudo pavimento affinché non fosse scoperto. Subito dopo fuggirono a cavallo.

Io, che, nascosta dietro una tenda, tutto avevo visto e udito, appena ritenni che gli assassini fossero abbastanza lontani, corsi alla torre a liberare la  mia padroncina e le raccontai tutto ciò che era accaduto: i suoi fratelli prima avevano immobilizzato Bonifacio, a turno lo avevano picchiato, e poi uno dei suoi fratelli lo aveva ucciso con un pugnale avvelenato, infine avevano trascinato via il suo corpo, poi si erano dati alla fuga. Presto, bisognava fare presto, bisognava cercare Bonifacio, forse ancora viveva.  

Allora Imelda, cupa nel volto e nell’animo, si diede a cercare il suo sposo, finché, seguendo delle tracce di sangue, non raggiunse i sotterranei dove, vedendo smossa una porzione di terra, si mise a scavare con le mani, infine trovando il corpo del suo sposo ancora caldo. Pianse, urlò, si disperò, si strappò i capelli, maledisse i suoi fratelli, ma poi si ricordò che per salvare dalla morte chi veniva trafitto con un arma avvelenata bisognava togliere dalla ferita il sangue corrotto dal veleno, e così, come un’invasata, nell’ estremo tentativo di riportarlo in vita, o per gesto folle, tra le lacrime che, copiose, rigavano il suo bel volto, si mise a succhiare avidamente il veleno dalla piaga mortale, dimenticando, guidata dall’amore, che  così facendo avrebbe ingerito anche lei il veleno. Come un’ossessa succhiò la ferita, ripetutamente, finché il veleno non giunse al suo cuore e cadde morta riversa sul corpo del suo Bonifacio.

Accadde tutto in fretta, terrorizzata, inerme assistetti ad ogni cosa, e nulla potei, se non, quando vidi la mia amata padroncina priva di vita sul cadavere del suo amato, intorno già il frastuono degli abitanti della casa risvegliati dalle urla e dai pianti,  pregare per le anime di quei due infelici, colpiti  da una morte così violenta che li aveva privati anche della possibilità di potersi liberare dai loro peccati con la confessione, il pentimento, la penitenza.

L’indomani già tutta Bologna sapeva, ma la cosa più triste fu che questa tragedia, che avrebbe potuto unire le due famiglie avverse, non solo non placò le ostilità ma le rafforzò, generando  scontri ancora più feroci, finché i Lambertazzi, sconfitti, furono costretti all'esilio e di loro a Bologna restò solo il ricordo.

Per quanto mi riguarda, dopo la morte orribile della mia padroncina e del suo sposo, ero troppo sconvolta, non mi sentii più di restare a servizio dei Lambertazzi. Un buon frate mi trovò una sistemazione nel Monastero delle Clarisse subito fuori Bologna, dove tuttora mi trovo. Ma non dimentico e, ogni volta che la mente ritorna a quei tragici accadimenti, sempre riprovo l’identico orrore e sempre prego per  le anime sventurate di Bonifacio e di Imelda, fiori gentili barbaramente strappati da mani crudeli.

 

 

 

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