(dall’antologia collettiva “L’amore delle donne”, Edizioni Montag,,2011)

Francesca Santucci

L’amore è un cane

 

 

Accadde quel giorno: la follia e la morte insieme…
Quella mattina, prima di aprirgli la porta, aveva provato sgomento rimirandosi allo specchio e, finalmente, aveva compreso perché le acque, i mari, i laghi, i fiumi, fossero stati creati limpidi, perché riflettevano le immagini, perché Narciso fosse rimasto affascinato dal suo volto nel tentativo di rimirarsi, e perché l’uomo avesse desiderato emulare le acque inventandosi gli specchi: per guardare bene in faccia l’altro se stesso ben annidato, per scovare quel doppio che sempre, prima o poi, nei momenti meno attesi, sarebbe riemerso
Si era guardata a lungo ed aveva avuto la netta percezione che, dall’altra parte, non ci fosse il suo riflesso, ma un’altra se stessa, che le causava disgusto e le imprimeva sul volto una smorfia cattiva: era cambiata, sì, era cambiata dentro, e il cambiamento si rifletteva fuori.
Ma no, ma no, non era cambiata affatto, solo che non lo era più nell’interezza, ora si rivelava nella doppiezza, palesava a sé l’altra se stessa che sempre era stata in lei, solo occultata, e che qualcosa/qualcuno erano riusciti a far riemergere.
Eccola lì, l’altra se stessa, poteva ben guardarla negli occhi, ora! Dall’altra parte dello specchio articolava suoni, gesticolava, sorrideva, ora ironica, ora beffarda, talvolta sembrava pure burlarsi di sé, ma non era più lei, non era più quella della sera precedente.
Di scatto, con moto stizzoso del capo, s’allontanò, si ravviò i lunghi capelli con entrambe le mani, poi crollò su una sedia ciondolando la testa.
Pensava al suo cambiamento. Era stato lui a cambiarla, trascinandola in una relazione che l’aveva avvilita, non nobilitata, e pensare che fino ad allora il suo credo era stato: migliorarsi!
Con modi garbati e gentili, senza mai palesemente forzarla, era riuscito a farle fare tutto ciò che voleva, guidandola, attraverso l’abiezione del corpo, ad abbrutire anche la mente, traendo fuori la sua parte sotterranea, trasformandola da donna, comunque, in qualche modo, libera, a schiava.
Ma era stata colpa del primo se si era lasciata trascinare in quella squallida storia alla quale, ormai, più non riusciva a sottrarsi, non perché obbligata, ma perché volontariamente legata, soggiogata per debolezza, per gioco che, inizialmente scherzoso, si era, poi, trasformato in masochistico e sadico.
Lui era bello, sensibile, colto, romantico, talvolta anche brusco e aggressivo, ma maschio fragile.
L’altro non era bello, ma aveva fascino; era intelligente, colto, educato, deciso, era maschio dominante.
Il primo aveva fatto scaturire in lei la poesia, il secondo la sensualità. Il primo coltivava i sentimenti, il secondo assecondava e guidava soltanto gli istinti.
Non amava il secondo, molto aveva amato il primo; con lui aveva persino contratto il patto d’amore dopo che, solenne, le aveva assicurato:
-Ora siamo della stessa natura, siamo dello stesso sangue, vita natural durante legati dalla fedeltà, solo la morte estinguerà questo fra noi.-
Ed avevano consumato l’amore, con profonda passione… poi era sparito.
Lo aveva aspettato lunghi giorni, lunghe notti, ma non era più tornato. Stupido sogno romantico era stato il suo: credere alle parole di un uomo!
Poi un giorno aveva incontrato l’altro. Pioveva anche quel giorno, d’una pioggia silenziosa e lenta. Lei si sporgeva dal parapetto, libera per una frazione di secondo dal bastone che aiutava sin dall’infanzia la sua deambulazione, guardava in basso il fiume correre piano, gonfio d’acqua grigia, simile al suo cuore oppresso, gonfio di dolore e di rancore. Improvvisamente le si era affiancato quello sconosciuto ed era tornato il sole.
Si erano allontanati insieme, lui con le mani affondate nelle tasche del soprabito riscaldato dal sole, lei zoppicando con le spalle strette, estranei vicini per chissà quale scherzo curioso del destino: era cominciata così fra loro.
Avevano parlato, parlato, parlato di arte, di letteratura, di mostre e di concerti e di progetti da poter insieme realizzare; lui era fin troppo garbato, amabile, gentile, premuroso, attento, non bello ma attraente, con ammalianti occhi obliqui ed una fossetta sul mento che gl’illuminava il sorriso furbo. Un giorno, poi, le aveva dichiarato il suo amore (ma era un amore malato il suo!), ma lei, delusa, disillusa, non gli aveva creduto, però gli aveva confidato la sua sfortuna con l’altro e il suo disincanto.
Lui parve comprendere le sue resistenze, fu paziente e seppe attendere.
Un giorno le disse:
-Quando hai il cuore oppresso, qual conforto migliore di me?-
Ed un altro:
-Chiedimi una prova d’amore, ti dimostrerò la forza del mio sentimento!-
Allora lei aveva cominciato a chiedere, quasi per gioco, forse per sfida, piccole dolcezze, piccole attenzioni, un cioccolatino, un fiore, un bacio sulla mano. Lui sempre esaudiva i suoi desideri.
Cominciò così: credette al suo amore e quasi credette d’amarlo.
Poi un giorno fu lui a chiedere:
-Faresti una cosa per me?-
Lei rispose di sì.
-Scrivi 100 volte su un foglio di quaderno che mi ami.-
-Ma non so se ti amo davvero… forse sì, forse no!-
-Scrivilo lo stesso!-
Lei scrisse.
Poi ancora:
-Per un mese non dovrai scrivere nulla, nemmeno il tuo nome.-
Lei lo accontentò.
Ora erano sempre più vicini, ma ancora tra loro l’amore non era stato consumato.
E un giorno (ormai l’uno ad un passo dal cuore dell’altro):
-Lascia che stringa la tua scarpina di seta nera intorno al tuo collo bianco, candido, sottile, come quello dei cigni che sempre ci fermiamo a guardare al parco.-
Lei aveva sgranato gli occhi, ma subito la voce mielata di lui aveva assicurato:
-Voglio vedere se hai davvero fiducia in me…Non crederai di certo che voglia ammazzarti?-
Allora lei gli aveva teso decisa la sciarpina nera, aveva sollevato il volto in direzione del suo e, ad occhi chiusi, il cuore palpitante come quello d’un condannato a morte, aveva atteso; ma lui aveva ordinato:
-Voglio che tu tenga gli occhi aperti, fissi nei miei.-
Si era avvicinato e, molto lentamente, aveva cominciato a stringerle la sciarpa intorno al collo, intanto che fuori splendeva il sole; il cuore di lei aveva accelerato sempre più i battiti, sentimenti confusi fra il timore, l’ansia e l’eccitazione crescevano, crescevano…intanto che subiva l’evento come sotto una fascinazione…Ma lui non aveva stretto troppo forte, no, e, abbandonata la sciarpa, afferratala fra le sue braccia, l’aveva sollevata in alto, poi, adagiatala con delicatezza sul divano, dopo averle dato piccoli morsi sulle spalle, infine l’aveva presa.
Poi c’era stato un nuovo episodio.
Lui aveva sfilato la cinghia dai calzoni (come faceva suo padre da bambina, aveva pensato con orrore!) e, intanto che, con dolcezza, le accarezzava i capelli, e le sussurrava con voce mielata, insistente, aveva cominciato a chiederle:
- Vuoi? Posso? Vuoi?  Posso? -
Rapita dal suo sguardo, affascinata dalla cantilena, non aveva risposto a parole, ma annuito, ed i colpi erano stati dapprima lenti come carezze, poi duri come scudisciate, infine simili a morbide cadenze che le avevano procurato, confusi al dolore, un sottile piacere. Ma non era amore, quello, no, non era amore…ben lo sapeva!
Però aveva cominciato a desiderare insieme le sue carezze e le sue percosse… sempre pensando all’altro, alle romantiche parole che le aveva prodigato, elargito, confondendole la testa ed il cuore in quei pochi giorni d’amore, sempre ripensando al patto di sangue stipulato, che lui non aveva mantenuto, che lei aveva tradito, che l’altro ignorava.
Infine, un giorno, le percosse furono più violente; guardò le sue candide carni lacerate a sangue, e ripensò all’altro sangue versato, quello versato solo per gioia d’amore, e quelle del nuovo uomo le apparvero in tutta la loro crudeltà, e si guardò allo specchio, e si scoprì avvilita, offesa, e miserabile.
E ricominciò più intensamente a pensare all’uomo che aveva amato davvero, e all’abisso nel quale era caduta, forse proprio perché, entrambi, erano venuti meno al patto, ma era stato lui a spingerla in quel baratro, perché non era più tornato.
… Quella mattina incontrò il suo volto riflesso nello specchio, si vide tra le braccia di lui che la sovrastava; pensò che nell’amore non c’era nulla di romantico, che aveva ragione il poeta a chiamarlo un cane che viene dall’inferno: decise in quell’istante che non voleva più esserne schiava.
Di scatto, distolse lo sguardo dallo specchio, si divincolò dalla stretta, folle afferrò il bastone e colpì l’uomo con tutte le sue forze, ripetutamente, ed era come colpire insieme lui e l’altro. Si fermò solo quando ci fu silenzio, non più un respiro di lui, non più rabbia dentro di lei.
Raccolse il suo bastone e lo ripulì del sangue, poi prese in braccio l’unico spettatore dell’ultimo atto della vicenda, il suo gatto spaventato, e lo rassicurò con parole e con carezze.
Tra un po’ sarebbe fuggita o avrebbe chiamato la polizia? – si chiedeva accarezzando il gatto. Non lo sapeva; intanto, pero, si godeva questo momento di delirio, affrancata, finalmente, dalla schiavitù d’amore.

 

Francesca Santucci

Francesca,
ho letto il tuo racconto che esprime una tragica realtà, sempre viva ed attuale purtroppo.
Descrivi con toni forti, spietatamente veri quell'istinto rabbioso che si annida dietro alle apparenze più belle.
Siamo doppi, sempre, ed e' sforzo sovrumano far prevalere la parte  nobile del cuore.
Quanta amarezza si prova nello sporcare e nel  veder sporcato il sentimento più nobile!
Quanta ambiguità e doppiezza nei rapporti !
 La tua arte si fa sempre più attenta e perfezionata nell'indagine del cuore e dell'anima.


 Antonia Chimenti

Writer
Italian and French Teacher

 

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