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Francesca Santucci
Ogni volta che una donna lotta per se stessa, lotta per tutte le donne.
A tingere di grigio quel giorno d’autunno c'era un gran mare di nebbia, simile a un velo di seta teso tra il cielo e la terra, che celava e rivelava, offrendo scorci fugaci come promesse sussurrate. Il paesaggio era come nascosto da un abbraccio etereo che tutto avvolgeva con delicatezza. I contorni delle cose che riuscivano a sfuggire da quell’incanto erano ammorbiditi, sfumati, i colori sbiaditi, il mondo pareva ritirato in un sogno dove imperava la malinconia, un'illusione che rendeva l'ordinario straordinariamente poetico. Non si udiva alcun rumore, non si comprendeva se fosse l’alba o il crepuscolo, eppure quello che riusciva ad emergere da quel labile mare di nuvole sotto la luce del timido disco solare brillava di abbagliante bellezza. Tutto ciò che in natura era familiare era stato trasformato dalla nebbia in un luogo di mistero, ma sotto quell’incanto la realtà ugualmente palpitava. Le foglie degli alberi erano già cadute ma, prima di staccarsi dai rami, avevano cambiato colore, abbandonando il verde uniforme per sfoggiare una straordinaria gamma di tonalità calde, simili a quelle di una tavolozza di un pittore: giallo oro, splendente come i raggi del sole, arancio intenso, brillante come un tramonto infuocato, rosso rubino, ardente come brace sotto il cielo, violetto chiaro, come i fiori di lillà, bronzo profondo dalle sfumature rossastre o marroni. Ora il fogliame caduto formava uno splendido tappeto scricchiolante, imprimendo all'aria un malinconico profumo di terra umida. Invitava alla contemplazione e ricordava che la bellezza più intensa spesso risiede proprio nel cambiamento e nel lasciar andare. Immersa nel silenzio interrotto dai salti e dai versi delle gazze e delle tortore occupate nelle loro dispute per il territorio, Emma osservava le morte foglie e i volatili in lotta, e pensava alla lotta personale che, quotidianamente, affrontava lei col suo uomo, un piccolo uomo, che aveva creduto grande, ed invece si era rivelato di un’incredibile pochezza. Egoista, possessivo, crudele, non mancava occasione per sminuirla, degradarla, opprimerla, esercitando una violenza che inizialmente non era fisica o plateale, ma sotterranea e psicologica, poi divenuta verbale e poi peggio, di cui tutti quelli che li conoscevano sapevano o intuivano, ma non intervenivano e nemmeno soltanto ne parlavano. Dopo l’abbaglio iniziale, Emma aveva compreso la vera natura, capito il reale carattere di quel piccolo uomo, ma, contro se stessa, continuava ad amarlo e a sperare in un cambiamento, perciò ogni rimprovero, ogni sgarbo, ogni offesa, tutto gli perdonava. Ma poi un giorno si rese conto che si stava spegnendo, e non voleva. Si scosse, quando, sempre per ombre, sospetti, fraintendimenti, immotivatamente o per futili motivi, contro di lei passò dalle umiliazioni psicologiche alle offese fisiche, colpendola violentemente sul volto con una mano. Inizialmente Emma quasi non sentì il dolore dello schiaffo. Andò allo specchio e, come instupidita, con occhi stupefatti, si mise a osservare il rivolo di sangue che, lento come una carezza infantile, scendeva dalla sua bocca. Ne assaporò il gusto: era dolciastro. Ma si riscosse quasi subito dall’incanto: la guancia e la bocca sembravano bruciarle. Pensò: -Se può essere così violento verso di me allora non mi ama!- E il suono cupo di quel colpo improvviso ricevuto per giorni e giorni rimbombò all'infinito nella sua mente.
Poi la scena si ripeté, la sua violenza, che, forse, aveva cercato di frenare, non si contenne più, dilagò come nei campi la piena di un fiume, sempre più spesso, ormai, lui ad alterarsi per un’inezia, un dubbio, un sospetto, e lei a incassare colpi, che non sempre lasciavano lividi visibili, ma ugualmente erano feroci. Allora Emma cominciò a sognare una vita libera, ogni giorno pensava alla fuga, ma non trovava il coraggio di attuarla. Ormai non provava più né paura né rabbia, sentimenti sostituiti da determinazione, volontà e una fredda, lucidissima certezza: doveva salvarsi perché quella non era più la sua vita, non era più vita. E così, un giorno, approfittando dell’ assenza del suo carnefice, usci a comprare una valigia. La volle viola, il colore che unisce la stabilità, la calma e la tranquillità del blu e l’energia, la vitalità e la forza del rosso, ciò che le occorreva per uscire da quella situazione di urgenza, che a nessuno aveva confidato, che a tutti cercava di nascondere. Di corsa entrò nel negozio e di corsa ne uscì trionfante: quella valigia era il viatico per la sua libertà. Pian pianino l’avrebbe riempita delle sue cose e con quella, poi, sarebbe scappata via. Ancora non sapeva bene come e dove, ma se ne sarebbe andata. Avrebbe convertito la sua debolezza in forza, la paura in coraggio, e se ne sarebbe andata, ma prima lo avrebbe denunciato. Doveva farlo per se stessa e per tutte le donne che vivevano la sua stessa situazione. Questo progettava, fuggire, ma nel suo entusiasmo fu incauta, non nascose bene quella valigia e un giorno lui la scoprì. Comprese subito le sue intenzioni, gliela prese e la nascose in un armadio del quale era l’unico a possedere le chiavi. Ma Emma era cambiata, non si scoraggiò vedendo ostacolato il suo progetto di liberazione, e, così, cominciò ad attendere i momenti propizi per cercare di aprire quell’ armadio chiuso, custode del suo viatico e simbolo del controllo che l’uomo aveva sulla sua libertà. Con pazienza, aspettava di restare da sola e provava ad aprirlo, ma in modo non distruttivo, affinché lui non se ne accorgesse. Scartata l’idea di usare un cacciavite, provò ad aprire la serratura dell'armadio con una forcina, poi con un vecchio fermaglio e altri strumenti che simulassero una chiave, ma non funzionò. Dopo vari tentativi stava quasi per arrendersi, quando si ricordò che in cantina c’erano delle vecchie chiavi. E se avesse provato con una di quelle? Si precipitò a prenderle, risalì di corsa e le provò una a una finché, miracolosamente, una chiave funzionò: la serratura era intatta e lui non si sarebbe accorto di nulla. Finalmente aprì l'armadio e ritrovò la sua valigia viola. Controllò che fosse intatta anche all’interno e, con grande stupore, scoprì che conteneva i suoi documenti, passaporto e carta d’identità che, mesi prima, aveva creduto smarriti, perciò aveva dovuto rifarli, e che invece, ora lo sapeva, era stato lui a sottrarle. Una determinazione ancora maggiore sentì rinvigorirla nel corpo e nella mente. Rimise a posto la valigia, richiuse l’armadio e per attuare il suo piano di fuga si pose in attesa della giusta occasione, che non tardò ad arrivare. Emma attese un giorno in cui l’uomo si assentò per un viaggio di lavoro lasciandola a casa dei suoi genitori. Non scappò in preda al panico, ma agì lucidamente. Con il pretesto che aveva dimenticato delle cose importanti, ritornò a casa sua, con calma infilò la chiave nella serratura dell’armadio, lo aprì, prese la valigia, dentro vi infilò pochi effetti personali, una piccola quantità di denaro contante che aveva risparmiato giorno per giorno dalla spesa e alcuni piccoli oggetti ereditati dalla sua nonna che avevano per lei un incommensurabile valore sentimentale: un rosario, un anello con ametista, un cameo e alcune ricette sbiadite. Compose il numero di telefono di un’amica fidata alla quale, finalmente, raccontò ogni cosa, poi telefonò a 1522, espose la sua situazione e l’operatore la indirizzò verso un centro antiviolenza, dove recarsi per segnalare il suo caso e ricevere consigli e pronto sostegno. Lasciò la sua casa portando con sé soltanto la sua valigia viola. Prima di chiudere la porta, si fermò a guardarla per l'ultima volta, e invece di sentirsi triste o spaventata dall’incognita del futuro, sentì solo il peso che si sollevava dalle sue spalle. Senza esitazione, si diresse subito al centro antiviolenza e poi al commissariato di polizia a denunciare le violenze subite. E quando, a sera, aprì per la prima volta la sua valigia in un luogo per lei sicuro, per sistemare le sue cose nella camera che l’amica le aveva messo a disposizione, sorrise, per la soddisfazione di essere libera e di essersi salvata da sola. Certo, quella non era la fine della storia, era un inizio, e non l’aspettavano momenti facili, ma era determinata ad affrontare tutti gli ostacoli pur di vivere libera e senza paura. Avrebbe ripreso il suo lavoro, avuto una casa tutta sua, riallacciato vecchie amicizie e strette di nuove, ritornata padrona di sé come un’attrice in palcoscenico, mentre fino ad allora si era sentita come un pugile sconfitto all’angolo del ring. Emma comprese che il suo errore era stato quello di aver taciuto per troppo tempo. Mai nessuna donna dovrebbe tacere, perché purtroppo è del silenzio che si nutre la violenza. Si affacciò alla finestra. Diradata la nebbia, ora il paesaggio poteva essere contemplato nell’interezza. Emma si abbracciò rilassata: fra poco, in punta di piedi, lungamente attesa, sarebbe ritornata la primavera, la stagione della rinascita. Il cielo sarebbe ritornato di un azzurro smisurato, l'aria, non più tagliente, ma tiepida, avrebbe esalato profumata le fragranze dei primi timidi fiori, a interrompere il silenzio ci sarebbero stati i garruli cinguettii dei merli, delle cinciallegre, degli usignoli e dei tordi a intessere festosi i nidi. Sciolte le nevi, i ruscelli avrebbero ricominciato a mormorare la loro antica melodia, i venti, non più furenti, a soffiare come un sussurro leggero accarezzando i primi rosati fiori di pesco. E la luce, ora lunga e dorata, avrebbe danzato sui prati come un inno alla gioia. Emma sentì il cuore intenerirsi pensando alla leggerezza della Natura e di se stessa: entrambe ridestate dopo un lungo inverno con in cuore un’ irresistibile voglia di tornare a fiorire.
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