Francesca Santucci

L'INCANTO DELL'ISOLA

 (dall'antologia AA.VV.,  "BrEvi Autori - volume 4", Braviautori.com 2017)

 

Carlo Perindani  (Milano 1899 - Capri 1986),  Marina di Capri.

Breve era il tratto di mare che separava il borgo in cui vivevo dall’ isola dalle rupi rosee contro il cielo azzurro, meravigliosa con le ripide scogliere a picco sull’acqua cristallina, le piccole baie, le grotte suggestive dalle strane forme assunte dalle stalattiti e stalagmiti nel corso dei secoli, le spiagge incastonate nel paesaggio d’incomparabile fascino, ed ogni anno attendevo con ansia il momento magico in cui avrei potuto raggiungerla e godere della sua selvaggia bellezza.
Vi arrivavo in barca, accompagnata dal pescatore più anziano del luogo -che mi avrebbe attesa al largo, calando le reti in attesa della pesca fruttuosa- e poi a nuoto quando, giunta in prossimità, distante solo pochi metri la riva, mi sarei tuffata e, a larghe bracciate, sarei approdata su una piccola spiaggia solitaria.
Seduta sulla sabbia bianchissima, investita da una luce abbagliante che, insinuandosi fra grotte e insenature, riverberava argentea sulle acque increspate, sostavo qualche istante per riprendere fiato, intanto che il mare s’avvolgeva d’un silenzio irreale, interrotto soltanto dal ritmico ansare della risacca.  
Poi mi prendeva il bisogno di andare in esplorazione e, accompagnata dai dolci voli  e dai rauchi stridii dei gabbiani, ogni volta l’isola rinnovava il suo incanto, attraverso i suoi colori,
i profumi, gli odori: il bianco del mirto, il giallo dei limoni, il verde del basilico, il pastello degli oleandri, il rosso del lentisco, il violetto dell’erica, l’oro della ginestra. Salivo fin sulla cima dove, a dominare il paesaggio, svettava un antico castello normanno, dalle cui torri spettacolare era il colpo d’occhio sul mare turchino: qui, per un tempo interminabile, sostavo rapita in contemplazione della bellezza del luogo, e a fatica mi allontanavo per rifare il cammino all’inverso.
Ritornata sulla spiaggia, lentamente i piedi affondando nell’umida rena, frugavo con lo sguardo e scovavo legnetti, alghe, frammenti di vuoti gusci calcarei, residui delle miriadi di conchiglie provenienti dalle profondità degli abissi, che le onde del mare, con il loro moto incessante, avevano ridotto in granelli sbattendole contro gli scogli. Spesso, poi, ero più fortunata, quando, fra i resti delle morte conchiglie e delle alghe fradice, m’imbattevo in quello che consideravo il tesoro prezioso dell’isola, afflosciate e inerti vesciche che un tempo erano state splendidi globi iridescenti, saliti a fior d’acqua dalle profondità, pericolosi al tocco anche quando ormai spiaggiati: le meduse. Lì, su quell’isola, in solitudine, ma non sola, fra le voci dei gabbiani e lo sciabordio ritmico delle onde del mare che, come in un abbraccio, la circondava, s’accendeva la mia immaginazione e, se chiudevo gli occhi, mi pareva che quegli esseri inerti, fra i più lievi ed evanescenti che il mare produca, si rianimassero e assumessero forma di eteree danzatrici, e, prendendomi per mano, mi guidassero in uno spensierato giro di valzer che mi faceva dimenticare ogni affanno…
Ma il fischio in lontananza del pescatore che veniva a riprendermi mi riportava alla realtà: era tempo di abbandonare la mia isola e, insieme, la me stessa mistica e spirituale che ero stata in libertà ed armonia. Domani, sarei ritornata di nuovo domani, a riviverne l’eterno incanto.  

 

 

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