Non so se sia una sorta di paura
ancestrale insita nella "natura umana”, comune a tutti, come la paura in
generale della morte, o del buio, o del fuoco, o degli spazi chiusi, ma so
che sin da bambina, confusamente covata e repressa, l’avevo dentro di me:
quella di perdere mia madre. E quando, poi, il timore si
concretizzò, quando l’evento luttuoso tanto temuto (e tanto scacciato ogni
volta che, pensiero molesto, appariva nella mente) si presentò (inatteso,
brusco, repentino, improvviso come un’improvvisa raffica di vento), fu come
precipitare di colpo in un abisso. Schiava del dolore, fu, quello, il
tempo della disperazione, dello smarrimento, della confusione, della
tenebra, della follia, quasi dell’incapacità di continuare ad assolvere nel
modo consueto le funzioni vitali (mangiare, camminare, dormire, sorridere,
relazionarmi agli altri). Come ritornata di nuovo bambina,
dovetti reimparare a vivere, ma stavolta da sola, senza l’aiuto di chi la
vita me l’aveva data, senza mia madre, distaccando da lei tutti gli
avvenimenti legati alla sua presenza, di cui aveva sempre fatto intimamente
parte, festività importanti, ricorrenze personali: il primo Natale, il primo
Capodanno, la prima Pasqua, e poi il mio primo compleanno, il mio primo
onomastico, il suo primo compleanno, il suo primo onomastico, tutto, ora,
senza lei. E ad ogni evento “celebrato” senza
lei, ad ogni momento vissuto da orfana, si rinnovò (si rinnova) la sua
morte, ed insieme la rabbia per il prematuro, ingiusto, incomprensibile,
strappo, ed il dolore, mai guarito dal tempo, che mai guarirà col tempo,
che resterà in silenzio ma in profondità, continuando ad amarla nel dolore
dell’assenza così come l’ho amata nella gioia della presenza, perché l’amore
non conosce la morte, l’amore è più forte della morte, l’amore è per sempre. Un tempo io fui nel ventre di mia
madre (minuscola sua parte d’immortalità), ora è come se lei, nelle mie
parole (minuscola mia parte d’immortalità) fosse nel mio; attraverso la
scrittura (la poesia […] ha questo compito sublime di prendere
tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di
trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi
nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come
l’immensità della morte è una catarsi della vita, A. Pozzi),
balsamo consolatorio, disciolgo l’eterno grumo di dolore e perpetuo
l’inscindibile legame che continua ad unirmi a lei oltre ogni barriera: per
sempre Madrefiglia.
Francesca Santucci
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