Francesca Santucci
MONTEVERGINE
(AA.VV., "Storie e leggende della Campania", Rudis Edizioni 2023 )
Natura e cultura,
storia e leggenda, spiritualità e devozione popolare, riti e tradizioni,
sacro e profano, s’incontrano e si fondono in questo suggestivo luogo
dell’Irpinia, Montevergine, frazione di Mercogliano, in provincia di
Avellino.
Na scumma argiento,
na Madonna nera
E il Santuario ospita pure una sala con degli ex voto, la mostra del
presepe nel mondo, un museo con dipinti del barocco napoletano, icone
orientali, e altri oggetti d’arte di grande valore che hanno reso
possibile dichiararlo monumento nazionale. Si può dire che, da quando san Gugliemo si stabilì sul monte e attirò tanti discepoli, l’ascesa non si si sia mai arrestata. Ancora oggi folle di fedeli, ma anche solo di curiosi, di ogni estrazione sociale e dei luoghi più disparati, arrivano sul Partenio per testimoniare la loro fede. Ai piedi del grande dipinto della Madonna i fedeli depongono fotografie e lettere con richieste di grazie, lasciano ex voto per ringraziare di averla ricevuta, chiedono unione familiare, fede, salute per un familiare, per un amico, per se stessi. I napoletani considerano la Vergine la loro Madre celeste, e la chiamano “Mamma Bruna” o “Mamma Schiavona”, perché il dipinto la mostra con un colorito scuro, tanto simile a quello degli schiavi nord-africani, perciò è considerata la protettrice degli ultimi, dei diseredati, degli emarginati. Secondo la tradizione, infatti, le Madonne erano sette, sei bianche e una nera, quest’ultima era considerata la più “brutta” delle sorelle per il colore della pelle, perciò, risentita, decise di isolarsi e andò a rifugiarsi sulla punta del monte Partenio (“Mons Parthenius" appunto "Monte Vergine"), da qui l’appellativo “ Schiavona”, cioè “straniera”. Il pellegrinaggio a Montevergine richiama da sempre un forte afflusso di pellegrini napoletani, che in passato arrivavano con ogni mezzo, in carrozza, a cavallo, con i carri, a piedi, con macchine in affitto talvolta scoperte per poter esibire la gioia del viaggio, spesso organizzando carovane di auto decorate con festoni floreali di carta dello stesso colore degli abiti dei viaggiatori, tutti similmente vestiti o di rosa o d’azzurro color manto di Madonna. Queste gite si organizzavano con notevole anticipo, le famiglie più disagiate mettevano da parte i soldi per l’escursione un po’ per volta e ogni settimana gli incaricati dei vari quartieri passavano a ritirarli. La partenza per Montevergine era ricca di folklore, chiassosa, rumorosa, preceduta da spari di botti nei vari quartieri e accompagnata dai suoni dei tamburelli allegramente agitati. Fra i pellegrini non mancavano di farsi notare i famigerati guappi, le “zi maeste”, popolane autorevoli che coglievano l’occasione per esibire i loro vistosi abiti e gioielli, e le ragazze costrette a praticare la prostituzione, che si recavano dalla Madonna per farsi perdonare della loro vita o chiedere la grazia di cambiarla. Ai pellegrini si univano anche i venditori di torrone, nocciole secche e taralli. Secondo la tradizione si recavano al Santuario donne sposate per ringraziare la Madonna di aver loro procurato un marito, o ragazze che la pregavano affinché glielo facesse trovare. Durante la salita al monte le nubili intrecciavano dei rami di ginestra, promettendo alla Vergine di ritornare l'anno successivo e di sciogliere il nodo in compagnia dello sposo. E salivano al Santuario, scalze, anche ragazzine che andavano a ringraziare la Vergine per conto di terzi. Appena arrivati al Santuario subito i pellegrini entravano in chiesa, chiedevano la grazia, mettevano gli ex voto ai piedi della Madonna e lasciavano soldi tra le inferriate della cappella di san Guglielmo. Durante la discesa, poi, le donne intonavano canti popolari e gli uomini facevano una corsa su carri chiamata recanata, e tutti si preoccupavano di divertirsi con pranzi, canti e danze. Ancora oggi il rito del pellegrinaggio, il giorno della festa della Madonna di Montevergine, l’8 settembre, ma anche per il resto del mese, puntualmente si ripete, commovente testimonianza di fede ma anche occasione festosa. E il 2 febbraio, il giorno della Candelora, c’è un’altra tradizione legata a Montevergine molto sentita soprattutto nel napoletano, la juta (andata) dei femminielli, figure legate al mondo greco pagano, risalenti agli antichi ermafroditi, che nell’antica Grecia erano considerato sacri poiché ritenuti figli della dea della Bellezza e del dio dell’Amore, e contenenti la dualità del creato, cioè la parte maschile e quella femminile. Verso di loro il popolo partenopeo ha sempre avuto rispetto e considerazione, dimostrando grande apertura mentale, in riconoscimento prima di altri dei diritti umani di tutti. L’origine della devozione dei “femminielli” per la Madonna di Montevergine, che considerano loro patrona, si fa risalire a un’antica leggenda, secondo la quale, nel 1256, durante una bufera di neve, una coppia di amanti omosessuali, scoperta dalla gente del posto mentre si baciava, fu imprigionata contro un albero sul monte con delle lastre di ghiaccio. Per intercessione della Vergine, un raggio di sole colpì il ghiaccio, lo sciolse e i due innamorati poterono salvarsi. Questa è la leggenda, ma l’ascesa dei “femminielli” al Partenio per omaggiare la loro Madonna, Mamma Schiavona, si collega al fenomeno del “travestitismo” già presente nell’antichità ed è di lunga data, come testimoniato dal ritrovamento, riferito dall’abate Gian Giacomo Giordano nelle sue “Croniche di Montevergine” (1642), di corpi di huomini morti vestiti da donne, e alcune donne morte vestite da huomini, dopo un incendio, nel 1611, nell’ospizio annesso al Santuario riservato all’accoglienza dei pellegrini.
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