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Francesca Santucci
NATALE DEL ‘43
(AA.VV., "Storie e leggende di Natale ", Historica edizioni 2025)
A mamma Gianna
Fu un Natale particolare, in estrema austerità, razionamento, povertà e tanta fame quello del ‘43. Si era in pieno conflitto mondiale. L’Italia era martoriata dalla guerra, piena di incertezze dopo l'armistizio, e divisa: il Nord sotto l'occupazione tedesca (caratterizzata da brutalità, repressione della resistenza, lavoro forzato e istituzione di campi di transito e prigionia) e lo stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana (il regime collaborazionista con la Germania voluto da Hitler e Mussolini); il Sud, gradualmente liberato dagli Alleati, ma ancora sotto il peso dei combattimenti. Giannina non dimenticò mai quel Natale! Allora aveva sette anni e viveva insieme alla madre in una casa danneggiata dai bombardamenti, subito fuori dell’abitato. Suo padre, al fronte, era stato dato per disperso. Stentavano a tirare avanti, scarsi erano i guadagni che sua madre ricavava dal lavoro a domicilio di sarta e, a causa delle restrizioni, in casa non c’era quasi nulla da mangiare. In quel periodo di festività la povera donna era riuscita a procurarsi alla “Borsa nera” solo una misera razione di farina di castagne, un po’ di carne secca, un pezzo di formaggio del quale avrebbero consumato anche la crosta, e una modestissima quantità di olio, molto richiesto e molto caro, rattristandosi infinitamente per non poter offrire di più alla sua figlioletta, almeno per Natale. Giannina aveva tanto sentito raccontare da lei e dalla sua nonna dei tempi in cui ben si festeggiava la solenne festività, e avrebbe fortemente voluto avere un alberello o un presepe. L’alberello era assolutamente da escludere perché avrebbe richiesto troppe spese per l’allestimento, inoltre era raro a trovarsi, essendo scoraggiato dal regime che lo riteneva un'usanza “nordica” e “straniera”, incoraggiando il presepe, tradizione italiana natalizia per eccellenza, molto sentita soprattutto dalle classi popolari. In un Natale di guerra, povertà e privazioni, il presepe, con la sua scena semplice, la rappresentazione della Nascita, era un forte simbolo di speranza, fede e resistenza spirituale. Le persone si aggrappavano a questo rito per trovare conforto, realizzandolo, per le ristrettezze del periodo, con materiali di fortuna, in modo economico. Ma la mamma di Giannina non aveva i mezzi nemmeno per allestirne uno piccolo, però, donna ingegnosa, la sera della Vigilia, per onorare il Natale, decise di accendere una candela e di metterla sul davanzale, un gesto quasi di sfida al buio del coprifuoco, e di speranza che la guerra finisse presto e suo marito, ora chissà dove, ritornasse. Alla figlia disse: - Questa è la luce di Natale, figlia mia. È piccola, ma è forte.-
Felice dell’idea di sua madre, Giannina quella sera saltellava in continuazione nella modesta casa lesionata, felice anche del grazioso abitino dismesso regalatole da una cuginetta: allora era così per i bambini poveri, rarissimi quelli nuovi, i vestiti passavano dai fratelli, dalle sorelle, dai cugini e dalle cugine maggiori a quelli minori. Nonostante non fosse proprio della sua misura, e nemmeno di suo gusto, la mamma era riuscita abilmente ad accomodarlo, ed anche a ingentilirlo in maniera molto graziosa, con un colletto a uncinetto realizzato col filato ottenuto scucendo una sua maglietta. Inoltre le aveva acconciato i capelli in due treccine laterali, legate da nastri di stoffa pure di recupero. Giannina era piccola, ma comprendeva pienamente la gravità della situazione intorno a lei e in casa, però quella sera era allegra e spensierata. Aveva nevicato, faceva molto freddo, ma già si sentiva riscaldare al pensiero della zuppa di verdure, preparata con verza, patate e erbe selvatiche invernali commestibili (cicoria, tarassaco e borraggine) raccolte nei campi, che di lì a poco sua madre avrebbe portato in tavola, e pregustava il sapore di quel castagnaccio che, nonostante mancassero quasi tutti gli ingredienti, realizzato con poca farina e poco olio, privo di pinoli, uvetta e noci (il dolce ‘senza’ lei lo aveva definito), era ugualmente riuscita a preparare. E poi c’era quella candela sul davanzale, sembrava un piccolo sole e quasi pareva illuminare a giorno e riscaldare come un fuoco la buia e fredda abitazione. Inoltre era di buonumore anche per un altro motivo: nonostante l’irregolarità con la quale aveva frequentato la scuola (come tutti i bambini, d’altronde, a causa del periodo turbolento), per Natale aveva imparato perfettamente a memoria una breve poesia di Zietta Liù, che la maestra, considerata la precarietà della situazione, aveva insegnato alle sue alunne in anticipo. E quella sera, tutta soddisfatta, l’avrebbe recitata alla sua mamma.
Natale
Giannina e la sua mamma si apprestavano, dunque, a consumare nella loro cucina al piano terra quel poco che avevano, in una tranquillità solo apparente, poiché ben consapevoli che fuori erano in corso i combattimenti, quando udirono all’esterno un rumore inconfondibile di stivali. La porta si aprì di colpo ed entrò un giovane soldato tedesco che, insieme ai suoi compagni, stava pattugliando la zona. Con la luce di quella candela era stato violato il coprifuoco, che imponeva di spegnere tutte le luci e di coprire finestre e focolari per rendere le città invisibili ai bombardieri nemici che, altrimenti, si sarebbero orientati facilmente sulle illuminazioni urbane, perciò lui veniva a ordinare di spegnerla. Qualsiasi luce era severamente vietata, potendo costituire un bersaglio per gli Alleati e un segnale per i Partigiani. Ma quando il soldato entrò in casa si trovò di fronte una misera scena: Giannina pallida, col visino affilato stretto fra le due treccine, indosso un abitino marroncino di lana grezza dal quale spuntavano due gambette fragili avviluppate in spessi calzettoni, ai piedi pesanti scarponcini, spaventata dal suo arrivo, stretta alla sua mamma lunga e sottile, con i capelli raccolti, l’aria dimessa, che si stringeva sulle spalle uno scialletto beige. Al centro della stanza, fiocamente illuminata e scarsamente riscaldata, c’era un tavolo ruvido, senza tovaglia, apparecchiato con due scodelle vuote che attendevano di essere riempite di zuppa bollente, in un piattino un pezzo di pane raffermo, in un altro il piccolo castagnaccio “senza”. Invece di sgridare la madre di Giannina e di ordinarle di spegnere immediatamente la candela, o di spegnerla personalmente, abbassò il fucile e si fermò ad osservare le due abitanti e l’ambiente. Chissà, forse ebbe nostalgia di casa, forse si ricordò del suo Natale in famiglia, forse Giannina somigliava a una sua sorellina e la sua mamma alla sua fidanzata, forse aveva anche lui in cuore un desiderio di pace… Si vedeva che era perplesso, che non sapeva cosa dire e fare, e madre e figlia quasi non respiravano per la paura. Il soldato non riuscì ad impartire l’ordine urlando come, normalmente, avrebbe fatto: conosceva il prezzo della fame, del freddo e della guerra. All’improvviso si sentì in lontananza l’inconfondibile rumore che attestava il passaggio dell'ondata di bombardieri, era iniziata la terrificante e caotica sequenza: il fischio agghiacciante delle sirene, il rombo degli aerei, il tuono della contraerea e, infine, il boato causato dalla caduta delle bombe. Quando il bombardamento sarebbe terminato, segnalato dal suono della sirena di “cessato allarme”, inevitabilmente si sarebbero contati i morti, i feriti e gli ingenti danni alle abitazioni civili, anche quando l'obiettivo dichiarato da colpire era stato industriale o militare. Il soldato si riscosse, doveva andare, ma, prima di uscire, si voltò a guardare la candela. No, non la spense, fissò per un istante la fiamma guizzante, quasi l’accarezzò con i suoi occhi azzurri, forse comprese che era un disperato tentativo di normalità, poi si portò una mano in una tasca e ne trasse qualcosa, che lasciò cadere sul tavolo, dicendo in un italiano stentato Natale... Per la bambina: erano dei biscotti, certamente facevano parte della sua razione di cibo giornaliero. L’indomani, il giorno di Natale, la casa di Giannina era salva, i bombardamenti avevano risparmiato il suo paese e colpito molto più lontano, dove, comunque, qualcuno piangeva. Quando si destarono, al mattino, sua madre e lei notarono subito che la candela si era consumata, ma aveva lasciato una traccia di fumo che ancora danzava nell’aria. Giannina guardò sua madre e vide che i suoi occhi erano pieni di lacrime. Di certo ripensava all’inatteso gesto di umanità del ‘nemico’, in quel periodo di divisione e paura, una piccola scintilla di luce, un barlume di speranza contro il buio della guerra, fragile, ma resistente, come quel filo di luce esalato dalla candela consumata. Dopo aver fatto colazione con i biscotti dei quali la sera prima il soldato tedesco si era privato, Giannina uscì con la sua mamma all’aperto. C’era un silenzio assoluto, e il tempo sembrava sospeso. La neve caduta nei giorni precedenti era diventata ghiaccio. Ogni ramo, ogni filo d'erba, ogni zolla, erano imprigionati in un guscio trasparente, ma la terra sepolta non era morta, si stava solo preparando per la prossima fioritura. E la neve ghiacciata era una promessa di rinnovamento il cui solo pensiero già scaldava l'anima.
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