dal libro

 

Donna non sol ma torna musa all'arte

Edizioni Il Foglio, 2003

 

Sylvia Plath

(1932-1963)

 

Sylvia Plath, scrittrice che oppose una posizione di duro rifiuto dell’oppressione maschile, e per questo simbolo delle battaglie femministe negli anni ’60, nacque a Boston nel 1932, da padre entomologo e madre casalinga.
La sua carriera scolastica fu ottima e brillante; scrisse con successo e conseguì molti premi, uno dei quali la condusse a New- York, ospite di un’importante rivista del tempo, ma questa città, col suo ritmo di vita frenetico ed ossessionante, in fondo vuota, la sconvolse.
Tornata a casa non riuscì più a dormire, a mangiare, a scrivere. Andò da uno psichiatra che le praticò l’elettroshock, tentò il suicidio, fu salvata, entrò in manicomio.La psicoterapia e gli elettroshock le consentirono di abbandonare ben presto la clinica, e la sua vita riprese con l’università, i corsi di poesia, la tesi di laurea su Dostoewskij e l’amore per il poeta inglese Ted Hughues, che sposò dopo qualche tempo.
Per Sylvia, educata ai valori della società americana, il successo era fondamentale, ma la nuova condizione di moglie era un ricatto continuo alla sua attività di scrittrice.
Inizialmente svolse in modo normale le mansioni di casalinga e di moglie, e la sua creatività non venne meno, anzi, intraprese con successo la strada della poesia, ma poi nacquero i figli e la sua vita cominciò a trascinarsi su un binario monotono, e la maternità, da gesto creativo, diventò fonte di frustrazione e causa di depressione; infine scoprì di essere diventata irrimediabilmente la moglie, con la consapevolezza che, dall’altra parte c’era l’amante, perché il suo Ted la tradiva. Sylvia si separò e portò i figli con sé, cominciando a vivere in ristrettezze economiche.
E’ proprio in questo periodo che esplose la sua attività letteraria; nel 1960 pubblicò “The Colossus”, presentazione immediata del suo stile personale ed elaborato e, come tentativo di liberazione, andando indietro nel tempo, testimonianza del suo crollo psichico, scrisse il romanzo “The Bell Jar”, in italiano “La campana di vetro”, che pubblicò nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lewis.
Definito anche la storia di una schizofrenica, più che la ricostruzione di una patologia, “La campana di vetro” è la testimonianza del disperato bisogno di affermazione di una donna lacerata dal conflitto irrisolto tra le aspirazioni personali ed il ruolo imposto dalla società, conflitto che, già a diciassette anni, la spingeva a scrivere:…Ho paura di crescere. Ho paura di sposarmi. Non voglio ridurmi a cucinare tre pasti al giorno, essere intrappolata nel tran tran quotidiano. Voglio essere libera… (“Letters home”).
Sylvia non era "matta", era solo una donna fragile, sensibile e in crisi, che aveva tentato di seppellire l’ansia di libertà e la vocazione di scrittrice in un matrimonio apparentemente felice; infatti non rifiutò mai il suo ruolo, tentò fino alla fine di conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi figli, alla notte rubava qualche ora per scrivere, cercando di soffocare il proprio istinto di ribellione che riversava solo nelle poesie e che cercava, poi, di farsi perdonare comportandosi da figlia, moglie e madre esemplare:.. non è vero quello che scrivo, sono buona, sono felice, rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto tutto quello che una donna deve fare…(“Letters home”), ma poi le aspirazioni a lungo represse riemersero con prepotenza, e le costarono la fine del legame matrimoniale, la solitudine e la morte.
Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e di madre, lacerata dal conflitto dall’essere per sé e dall’essere per gli altri, in qualche modo, per scrivere poesie, ho bisogno di sapere che ho davanti a me tutto il tempo che voglio: niente pasti da cucinare, niente libri…1, Sylvia lasciò un’infinità di poesie violente e disperate ed un unico elemento di disordine nella cucina del suo appartamento: il suo corpo senza vita.
Un mese dopo la pubblicazione del romanzo depose pane e latte accanto ai letti dei suoi figli,aprì le imposte della loro stanza, sigillò porte e finestre con nastro adesivo e asciugamani, scese in cucina, aprì  il gas, infilò la testa nel forno e si lasciò morire.
Sei giorni prima aveva scritto l’ultima poesia, “Limite”, spedita il giorno stesso all’”Observer”, poi pubblicata postuma.
In tutte le opere di Sylvia Plath i personaggi vivono situazioni difficili, giovani, donne, ribelli, disadattati, perché attraverso la sua poesia la scrittrice cercava di esorcizzare le drammatiche esperienze di vita personali e, soprattutto, il tormentato rapporto avuto fin dall’infanzia con le figure maschili, a cominciare dal padre, morto quando lei era bambina, ma che aveva condizionato tutta la famiglia con la sua rigidità, per finire con quello ugualmente difficile con Ted, e questo la condusse ad una posizione di duro rifiuto dell’oppressione maschile che la rese, all’epoca, simbolo delle battaglie femministe, ma che ancora oggi sorprende per la sua modernità.
Con questa identificazione femminista non bisogna, comunque, limitare il valore della scrittura di Sylvia Plath che, pur autobiografica, tuttavia rivela un’eccezionale capacità lirica ed un uso sapiente, quasi magico della parola. La sua abilità di riversare l’angoscia nelle parole toccano con forza ancora oggi le corde più profonde della sensibilità, non solo delle donne, è per questo che, pur se saldamente ancorata alla letteratura americana, continua ad essere molto amata ed apprezzata anche in occidente.

SONO VERTICALE

Ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero con la radice nel suolo

che succhia minerali e amore materno

per poter brillare di foglie ogni marzo,

e nemmeno sono la bella di un’aiola

che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi,

ignara di dover presto sfiorire.

In confronto a me, un albero è immortale,

la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,

e a me manca la longevità dell’uno e l’audacia dell’altra.

Questa notte, sotto l’infinitesima luce delle stelle,

alberi e fiori vanno spargendoi loro freschi profumi.

Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.

A volte penso che è quando dormo

che assomiglio loro più perfettamente-

I pensieri offuscati.

L’essere distesa mi è più naturale.

Allora c’è aperto colloquio tra il cielo e me

e sarò utile quando sarò distesa per sempre:

forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno

tempo per me.

28 marzo 1961

 

PAPAVERI IN OTTOBRE

Neppure le nuvole assolate stamattina riescono a dare

gonnelle come queste.

Neppure la donna dell’ambulanza

il cui cuore rosso fiorisce così stupefacente dal cappotto.

Un dono, un dono d’amore

del tutto non richiesto

da un cielo

che pallido e infiammato

accende i suoi monossidi di carbonio, da occhi

che si arrestano torpidi sotto le bombette.

O mio Dio, che cosa sono io

perché queste bocche tardive si spalanchino a un grido

in una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi?

27 ottobre 1962

 

PECORE NELLA NEBBIA

Le colline digradano nel bianco.

Persone o stelle

mi guardano con tristezza, le deludo.

Il treno lascia dietro una linea di fiato.

Oh lento

cavallo color della ruggine,

zoccoli, dolorose campane.

E’ tutta la mattina che

la mattina sta annerendo,

un fiore lasciato fuori.

Le mie ossa racchiudono un’immobilità, i campi

lontani mi sciolgono il cuore..

Minacciano

di lasciarmi entrare in un cielo

senza stelle né padre,un’ acqua scura.

2 dicembre 1962, 28 gennaio 1963

 

LIMITE

La donna ora è perfetta.

Il suo corpo

morto ha il sorriso del compimento,

l’illusione di una necessità greca

fluisce nelle pieghe della sua toga,

i suoi piedi

nudi sembrano dire:

siamo arrivati fin qui è finita.

I bambini morti si sono acciambellati,

ciascuno, bianco serpente,

presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.

Lei li ha raccolti

di nuovo nel suo corpo come i petali

di una rosa si chiudono quando il giardino

s’irrigidisce e sanguinano i profumi

dalle dolci gole profonde del fiore notturno.

La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,

non ha motivo di essere triste.

E’ abituata a queste cose.

I suoi nei crepitano e tirano.

5 febbraio 1963

 

(traduzioni di Anna Ravano da, Sylvia Plath, Opere, Meridiani)

1) Sylvia Plath, Opere, dai “Diari”, pag. 1291, Meridiani, 2002, Milano.

 

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