prefazione al libro di poesie  di

Nevhar Nevara

...E poesie e d'amore, e di mare e di terra

 

 

Si configura come il racconto di una significativa storia d’amore il dettato lirico di Nevhar Nevara, scrittore già da lungo tempo, ma ora al suo esordio pubblico, nella silloge “…E poesie d’amore, e di mare e di terra”.
Inno all’amore, ma anche omaggio “all’oggetto” del desiderio, la donna, il suo è un viaggio poetico, attraverso i vari momenti, all’interno del Sentimento per eccellenza, quello che, nella gioia congiunta all’inevitabile componente del dolore (ma, come ricordava Robert Desnos, “ Ô douleurs de l'amour! Comme vous m'êtes nécessaires et comme vous m'êtes chères”!), vivifica e rigenera.
In profondo sentire maschile, con garbata, ma non celata, sensualità, con toni romantici ed accenti appassionati, modula il desiderio verso la donna amata, presenza viva, carnale, variamente incastonata nello scenario naturale (mediterraneo), di terra e di mare, veicolando sensazioni ed emozioni mediante versi fluidi, liberi, sciolti da ogni vincolo metrico, moderni nella forma, talvolta addirittura in azzardo innovativo, cantati  nell’autenticità.
La donna è, qui, da amare d’un amore battente (poesia VIII), appassionato, totale, coinvolgente, di mente, cuore e sensi; la (sua) donna, è femmina meravigliosa, marmo scolpito con le mani, rosa bianca di pane, regina dell’amore (poesia I), conchiglia, ambra, pelle di rosa (poesia II), creatura splendida (poesia VIII), creatura fatta di carne e di stelle (poesia XVIII), ma anche piedistallo della [mia] pena (poesia I), cerchio di fuoco attorno alla [mia] tristezza (poesia II), alla quale lanciare, insieme Ulisse e Sirena, affatturatore e affatturato, conquistatore e conquistato, vincitore e vinto, padrone e vassallo, il richiamo d’amore, Ti attendo…Su, vieni che t’amo (poesia VII), contro uno sfondo in cui partecipe è tutto il creato, in un richiamo corale (poesia VIII) di tutti gli elementi, di terra, di mare e di cielo: il vento, l’eco sottile e moltiplicante della spuma, il tramonto nella conca del mare, le fila di gabbiani, i cristalli del mare, la chiara e nuda sera (poesia VIII), la sabbia rotonda (poesia X), in un ‘amplesso cosmico fra uomo e natura.
In complice, rispettoso, avvolgente, protettivo silenzio, il momento dell’unione intima viene, così, ad assumere una profonda sacralità, come se l’unione degli umani si estendesse, in profonda comunione, al cosmo intero.
Ma quanto più l’unione diviene universale, spirituale, tanto più si palesa l’ardente desiderio personale, carnale, dell’uomo, fino a raggiungere versi di elevata sensualità:

 

Devi stringermi, devi tenermi, devi

afferrarmi!

Possedermi, donna mia e mia solamente,

possedermi come un golfo il mare,

come gli argini un fiume,

come una brocca l’acqua.

Possedermi

come un abbraccio un corpo.

(poesia XI)

 

Ed ancora il rimando dal particolare all’universale, dall’umano al cosmico, dal finito all’infinito, in una continua corrispondenza fra sentimenti e sensi, in travolgimento dell’impeto d’amore, in bisogno di comunione e fusione totali, di essere posseduto e di possedere, spinto, in un lungo interminabile amplesso, dal bisogno d’amore, dal moto del cuore e dall’urgenza dei sensi, ma anche dalla necessità di offrirsi un senso concreto nell’incertezza del vivere quotidiano e, persino, dal “cupio dissolvi” per obliare l’esercito degli antichi dolori:

 

…[] Adesso che il mare prepara la sua marea,

adesso che il vento comincia a chiamare

con le sue lingue di fuoco e di lama,

adesso che il cielo gonfia il suo petto!...

adesso, donna mia

 

adesso

(poesia XI)

 

Ed ora che la fusione è avvenuta, in abbandono dolce e prepotente, assoluto e totale, in completo appagamento (Mondo!:/ in piedi e uniti nell’abbraccio/io e lei siamo la rosa nera che/ si forma/ e dalla riva ti guarda/ dietro l’occhio del tuo sole!, poesia XV), ora che perfetta è la compenetrazione fra tutte le parti del cosmo, fra terra, mare e cielo, fra creature e creato, ora che la donna è stata “strumento” elevato, tramite nobile fra il piccolo mondo personale ed il vasto mondo totale, cosa volere di più?

 

Cantano grilli fra pini indolenti,

s’empie la notte di cori minuti.

 

La luna frammenta

La sua figura sull’acqua.

 

Cosa volere di più adesso,

se anche un semplice bacio

apre ora latitudini immense?

(poesia XII)

 

A questo punto poco importa la conclusione della fantasia poetica o dell’esperienza personale sublimata nel verso (o di entrambe nel verso con/fluite), poco importa che l’incontro Uomo/ Donna si sia esaurito ( Si spengono le labbra/ I corpi si rivestono…Io ero la tua acqua e tu eri la mia sete, poesia XVIII) e che in chi scrive permanga l’amarezza del distacco, la solitudine dell’abbandono, la malinconia del rimpianto, con l’unico conforto del ricordo di ciò che ormai è irrimediabilmente consegnato al passato, giacché niente dura per sempre (era questa la riva/ dove passeggiavamo e mi chiedevi sempre/ che ti recitassi i miei versi al tramonto….Ahi, amore: tutto passa, poesia XIX ). Ciò che davvero importa è il messaggio positivo, la luminosa eredità affidata al lettore,  il suo “Lascito”, il “canto in marcia” che suggella la raccolta, canto, grido, esortazione del poeta all’Amore (impulso vitale), giacché, nonostante tutto, è lui (l’Amore) soltanto che dà senso alla vita (poesia XXI), valido oggi più che mai nel nostro mondo in tempesta, che sovente avalla e legittima, variamente declinata,  l’aggressione (sopraffazione, violenza, morte).
L’intera silloge si snoda, così, attraverso l’intensità del sentimento e la vitalità del desiderio ardente, arrivando all’esaltazione ed all’ebbrezza, tutte emozioni autentiche, consegnate agli occhi, e al cuore, di chi legge in completo abbandono, nell’interezza della loro sconvolgente intensità.
In quest’interessante opera di esordio, in cui quasi irrilevante appare la componente autobiografica, proclamando un sentimento a tutti comprensibile, da tutti condivisibile, Francesco Nicotera già così offre una buona prova della misura alta dei suoi versi, fascinosi e seduttivi ma, di certo, in un prossimo futuro, non mancherà di offrirne di nuovi, altrettanto ammalianti, dei quali restiamo, sin d’ora, in trepida attesa.

Francesca Santucci (2007)

 

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