Francesca Santucci

SI POTRIA MAI VEDERE LA PIÙ BELLA COSA

(dall'antologia AA.VV., “L'è un gran Milano”, Edizioni Montegrappa 2018,

ispirato  alla storia della Monaca di Monza,

racconto finalista alla XXVII Edizione del concorso

"Les Cahiers du Troskij Cafè", L'è un gran Milano!)

clic per ingrandire

Il silenzio (1906),  Stefano Bersani

 

Milano, Anno Domini MDCL

Sono ormai alla fine dei miei anni, lunga è stata la mia esistenza, e tormentata, segnata da una colpevole passione d’amore giovanile che per me fu Paradiso e Inferno, vissuta fra sentimenti opposti, continue crisi di coscienza, intensi rimorsi, avvilimento e prostrazione fisica, risucchiata in un vortice di peccati e delitti che mi condussero alla perdizione e, dopo aver infranto tutti i sacri voti, di obbedienza, castità e umiltà, nel luogo dove ancora mi trovo- isolata, “murata viva”, per il mondo come morta- ma nel quale, in perfetta solitudine, sono riuscita a intraprendere un percorso spirituale di espiazione e di pentimento, che nelle penitenze et confusione si ritrova Cristo.1
Avevo solo trentatré anni quando fui condannata alla carcerazione perpetua. Per ordine del cardinale Borromeo fui trasferita nella casa delle Convertite di Santa Valeria a Milano, istituzione religiosa che accoglieva ex prostitute pentite che, "convertite",  abbracciavano la vita monastica.
Quanti momenti difficili, soprattutto nei primi tempi, ho trascorso in quest’angusta cella (murata, di un metro e ottanta per tre, senza nessun contatto con l’esterno, con una semplice porta e, come finestrella, soltanto una feritoia per fare passare l’aria e consentire la consegna dei viveri indispensabili), e non per lo spazio ristretto, né per la perdita della mia libertà o del mio potere, ma per la privazione dell’oggetto del mio desiderio, causa delle mie colpe e della mia rovina. Soprattutto la notte era dura da trascorrere! Nel buio, dove nemmeno un raggio di luna arrivava a rischiarare, mi stringevo nelle ruvide lenzuola cercando scampo alla nera solitudine che mi avvolgeva come un sudario, ripensando ai fatti accaduti, il suo nome invocando, d’insano desiderio smaniando, ma mi rispondeva solo il silenzio. Dopo tutto ciò che avevo subito, il processo, la condanna, l’orrore per le colpe di cui mi ero macchiata, l’animo lacerato dai tormenti interiori che mai mi avevano abbandonata, sempre divisa fra il mio credo e la mia colpevole passione, ancora il mio corpo al pensiero di lui fremeva e sussultava, ma tutto intorno taceva, solo talvolta batteva e ribatteva il vento, insieme gemito e lamento: la pace non era arrivata nel mio cuore. Poi gli anni sono trascorsi, ho espiato ben oltre il dovuto le mie colpe, ma nessuno conosce il mio bruciante segreto, e cioè il mio vero peccato: ora sono qui, per confidarlo almeno a queste pagine bianche che mi accingo a vergare, non senza la consapevolezza che il dolore sopito dentro di me riesploderà, ed insieme il tormento.
Ecco, io confesso: il mio vero peccato è stato l’aver amato fortemente il mio peccato.
Ero così giovane, allora, e nei miei sogni di fanciulla non v’era altro che il desiderio di un amore, di una casa mia nella quale vivere con il mio sposo, sempre accanto a me, ben presente, non come mio padre che poco vidi nell’infanzia, dal quale blando affetto ricevetti nelle sue sporadiche visite, sempre altrove impegnato, in battaglia o negli affari, e che, dopo la mia monacazione-forzata, per depredarmi di tutto - non rividi mai più.
Nacqui nel ducato di Milano, in un tempo di vessazioni, malcontenti e morbi. Marianna fu il mio nome nel mondo secolare. Fui fortunata a avere come padre un uomo ricco e influente, a nascere in una famiglia nobile, dalla parte dei potenti non del popolo, oppresso dal malgoverno con le più disparate tasse e dalla malavita che imperversava così tanto da coinvolgere persino religiosi che, non di rado, si trasformavano in briganti, perciò molto attivi a reprimere erano sia le milizie spagnole sia i Tribunali, ma, quando ancora non aveva nemmeno un anno, mia madre fu falciata da un’epidemia di peste, autentico flagello del mio tempo, lasciando eredi universali in parti uguali me e il maggiore dei cinque figli nati dal suo precedente matrimonio.
A mio padre, superbo e avaro, interessato fortemente alle ricchezze e a mantenerle, spettò l’usufrutto della dote, ma, per privarmi dell'eredità, d’accordo con le sorelle del mio fratellastro, avviò delle controversie legali. Infine, praticamente derubata da tutti loro, fui affidata a una zia paterna che aveva il mio stesso nome, la marchesa Marianna, donna prepotente, bigotta, che, assistita da una balia, grazie al lascito disposto da mia madre per la mia educazione, si prese cura di me.
Privata dell’amore materno, con un padre mai presente e una zia tremenda, crebbi, così, nella più totale assenza di affetti, educata esclusivamente all’orgoglio della nostra illustre casata e a una forma di religione impersonale e distaccata da Dio, improntata più al rispetto di formalistiche pratiche che a un autentico sentimento cristiano: fu probabilmente per questo motivo che così fragile e precaria fu la mia coscienza religiosa.
Quando avevo tredici anni mia zia morì. Non ero destinata al convento e non avevo la vocazione, ma mio padre, risposatosi con una nobildonna spagnola e stabilitosi a Valencia, avendo io rifiutato di unirmi in  matrimonio con un principe più vecchio di me di ben venticinque anni, mi costrinse a entrare nel Monastero di Santa Margherita. Concluso il noviziato, presi i voti, assumendo, dal nome della mia povera madre defunta, quello di suor Virginia Maria: avevo soltanto sedici anni.
Il monastero era profondamente malinconico. Tetro, uggioso, con locali angusti e rustici, chiuso da ogni lato, privo di un qualsiasi varco da dove poter guardare un monte o solo l’orizzonte, protetto a destra dal folto giardino di un’abitazione, con la porta d’ingresso fermata da un pesante chiavistello. Pur monacata a forza, tuttavia la vita qui inizialmente non mi fu tanto sgradita. Finalmente potevo avere compagne della mia età, stabilire legami di amicizia, cose che mai prima mi erano stata concesse, vivendo in totale isolamento nel mio austero Palazzo, circondata solo da adulti, servitori e precettori freddamente ossequiosi, mai affettuosi.
Nel monastero, provenendo da una famiglia di nobile casata, godevo di una posizione privilegiata. Risiedevo in un piccolo appartamento tutto mio, separato dagli alloggi dalle altre consorelle, ero assistita da quattro suore ausiliarie e da alcune dame di compagnia, e avevo una conversa per le mansioni di servizio. Essendo nobile, ben educata, istruita, affabile ma dal contegno perfetto, grande era la considerazione in cui mi tenevano le suore, che mi trattavano con rispetto e gentilezza, ed anche dal circondario ero stimata. Col tempo, però, aumentando il mio potere (tutti, allora, mi chiamavano “la Signora”), acquisita consapevolezza del mio ruolo e del mio valore, crebbero in me alterigia e arroganza, tanto da arrivare a rimproverare aspramente e addirittura a malmenare le consorelle non obbedienti. Suora e feudataria (ruolo che esercitavo in assenza di mio padre), dal monastero mi occupavo con competenza dell’amministrazione dei beni della mia famiglia, ma ero anche autorizzata a curare la giustizia, preoccupandomi delle necessità degli abitanti del luogo: ad esempio, un anno accordai ai frati cappuccini il diritto di pescare nel fiume Lambro dal giardino del loro convento.
Vivevo nell’ombra, protetta dalle ali del Signore che, però sentivo estraneo, lontana da un intimo colloquio con Lui, la mia religiosità non era radicata nel mio animo, secondo quanto appreso si basava più che altro sull’osservanza di formule e pratiche.
Come suora svolgevo i compiti di sagrestana ed ero addetta alle putte secolari, cioè ero maestra delle educande, che erano solite riunirsi a passeggiare nel cortile sotto la mia sorveglianza.
Nella casa affiancata a un lato del monastero abitava un giovane di famiglia nobile, bello, colto ma ozioso e spregiudicato, che conduceva una vita scellerata con i suoi sgherri: Gian Paolo era il suo nome. Costui aveva preso l’abitudine di sbirciare le educande nel cortile da una finestra della sua abitazione. A rivelarmi tutto fu un mio servitore: grande fu il mio disappunto quando lo scoprii! Subito ammonii aspramente le giovinette, minacciando severe punizioni se avessero osato soltanto sollevare i loro sguardi verso quell’uomo. Tutte mi ubbidirono, tranne una, che si lasciò andare alla tentazione, a tal punto che cominciò ad amoreggiare nascostamente con quel giovane scellerato. 
Avevo, allora, ventidue anni. Non so cosa mi accadde, non so perché. Come intrappolata in un inarrestabile vortice dentro di me si agitavano rabbia, furore, ardore, gelosia, voglia di essere al posto di quella giovinetta. Completamente dimentica di essere consacrata all’amore di Cristo e della Chiesa, cominciai a sognare l’amore carnale … e meditai il modo di allontanare colei che si frapponeva fra me e l’uomo che desideravo.
Convocai di corsa i genitori della giovinetta, riferii il comportamento scorretto della loro figlia, sottolineai che l’uomo era uno scellerato di professione che si accompagnava ad altri scellerati come lui, che con i suoi sgherri si prendeva gioco delle leggi e della giustizia, così abili furono le mie argomentazioni che raggiunsi il mio scopo: per evitare lo scandalo si affrettarono a portar via la figlia dal monastero e ad accasarla. Qualche giorno dopo il servitore che mi aveva rivelato della tresca fu trovato assassinato con un colpo di archibugio: subito si sospettò che a ucciderlo fosse stato Gian Paolo per vendicare la spiata e l’allontanamento della giovane.
Costretto a vivere rintanato in casa per evitare vendette, ben presto lo sciagurato, sfrontato e spavaldo, riprese a guardare nel cortile del monastero, ma, stavolta, l’impertinente osò allungare il suo sguardo verso di me, che, però, già ero predisposta verso di lui. Tuttavia inizialmente, ancora assennata e timorosa, non solo rifiutai i suoi approcci ma, amministrando la giustizia, chiese il suo arresto. Fu costretto a fuggire e a rimanere latitante per circa un anno, ma poi ritornò, e riuscì a strappare il mio perdono senza troppa fatica: in quell’anno di lontananza io non avevo fatto altro che spingere lo sguardo ripetutamente verso il suo giardino spiandone il ritorno.
Ora l’abito monastico, che pure mi aveva inorgoglita indossare, m’infastidiva, insopportabile mi era la tunica, e non vedevo l’ora che arrivasse l’ora del ritiro per potermi strappare il velo dalla testa che, da mesi, ormai in moto di ribellione verso la mia condizione, non privavo più dei capelli, ma lasciavo liberi di crescere (grave strappo alla regola, ma, godendo di privilegi, nessuna delle consorelle, nemmeno la superiora, osava rimproverarmi).
Fu nella primavera del 1598 che, grazie alla complicità di due suore fidate, cominciammo a scambiarci delle lettere, prima caste, poi più ardenti, cui seguirono anche doni, ma fu solo l’anno seguente, dopo la morte di mio padre, che cedetti alle insistenze e accettai d’incontrarlo. Il bisogno di quell’amore che mi era stato negato, che non avevo mai avuto, esplose di colpo, e fui fra le braccia di quell’uomo, risposi al suo richiamo e corrisposi. Per anni e anni, combattuta fra santità e purezza, desiderio e ritrosia, passione e rimorso, soggiacqui al mio e al suo ardore, nonostante al primo incontro, nel parlatorio, di notte, presenti anche due mie consorelle complici, lui mi avesse presa con la forza. Allora scappai via, di corsa, sconvolta dalla sua violenza. Tornata nelle mie stanze mi accorsi che scottavo, come in preda alla febbre. Su un fazzoletto versai dell’acqua fresca, ripetutamente mi tamponai le tempie, la fronte, le gote, le labbra … Ero colpevole, si era abbattuta su di me una grande sciagura (ché tante altre ne avrebbe causate … ma allora non potevo saperlo), ne ero consapevole, eppure non potevo impedirmi di pensare a lui, a quel corpo che solo poco prima aveva stretto il mio, anche se con violenza. Avevo scoperto la pelle, desideravo ancora il suo caldo contatto … e, di fronte alle dichiarazioni di pentimento del mio amante, nonostante i tormenti (dubbi, sensi di colpa, timori) che mai mi abbandonarono, dopo aver tentato di scacciare dal mio corpo l’insana passione con preghiere, penitenze corporali, pellegrinaggi, ricorrendo persino a superstiziose pratiche magiche popolari, arrivando anche a un passo dal suicidio (volevo gettarmi nel pozzo del chiostro) perdonai e tornai ad incontrarlo.
Frequenti cominciarono gli incontri d’amore, che non tardarono a dare i loro frutti: partorii prima un maschio, nato morto, e poi una bambina, che suo padre riconobbe e portò a vivere con sé. Infine fummo scoperti, troppi movimenti sospetti di giorno e di notte nel monastero, e forse il mio amante ed io ci sentivamo troppo sicuri, sfrontato lui, incosciente io, certa che, per la mia condizione privilegiata, nessuno avrebbe osato accusarmi. E invece a un certo punto la gente del circondario, che prima solo sussurrava, cominciò a parlare, a voce sempre più alta, finché non arrivò a informare la Superiora del monastero dei colpevoli convegni, ma le chiacchiere furono messe a tacere con il pretesto che noi due c’incontravamo perché lui si stava preparando spiritualmente a divenire frate cappuccino. Poi la situazione precipitò. Le chiacchiere ripresero con maggior forza, bisognava eliminare definitivamente chi parlava di noi, si arrivò ai delitti, attuati dal mio amante, a me non ignoti, che, infine, spinsero il governatore di Milano a prendere provvedimenti contro di lui, e il cardinale Borromeo ad avviare un’indagine che portò al mio arresto: era il 15 novembre 1607.
Tentai di oppormi, ero come impazzita, fuori di me arrivai a brandire una lunga spada, ma fui presa e trasferita sotto scorta armata a Milano, nel monastero delle benedettine di Sant'Ulderico.Ormai disonorata e diffamata, abbandonata dalla mia famiglia, subii un processo ecclesiastico. Inizialmente cercai di difendermi dicendo di essere stata vittima di un maleficio, dal quale avevo cercato di liberarmi, poi rivelai la fascinazione che l’uomo aveva esercitato su di me e che avevo tentato di espiare con digiuni, discipline e intensificando le orazioni, infine, sotto tortura, fui costretta ad ammettere tutte le mie colpe, anche quelle che non avevo direttamente commesso, e fui condannata alla carcerazione perpetua.
Condannato dal Senato alla confisca dei beni e alla pena di morte in contumacia, lui riuscì a evadere dal carcere ma, ospitato nel palazzo milanese di nobili che credeva amici, fu da loro barbaramente ucciso a bastonate, nei sotterranei, per incassare la taglia offerta per la sua cattura.
Dopo quasi quattordici anni trascorsi in questa celletta, infine un giorno ricevetti la visita del cardinale Borromeo, che mi concesse il perdono, additandomi, poi, sempre come esempio di peccatrice pentita, redenta dalla grazia divina. Ero libera, di nuovo suora, ma … non so… se per orgoglio o follia, o bisogno di espiare ancora più a fondo le mie colpe, chiesi e ottenni di restare con le Convertite di Santa Valeria. E sono ancora qui, e anche se lontano è quel periodo nefasto della mia giovinezza, quando, talvolta, contro la mia volontà, la mente ritorna a quei tristi accadimenti, non posso impedirmi di pensare che un tempo, nel buio della mia vita, improvviso e fugace come il raggio di sole che riesce a scavarsi un varco dietro la nuvola che lo offusca, brillò l’amore di un uomo. Allora, anche se solo per un istante, dimentico afflizione e contrizione, e torno ad amare il mio peccato: colui che, la prima volta che lo vidi dalla mia finestra, mi fece battere il cuore e, con stupore e meraviglia, esclamare: si potria mai vedere la più bella cosa!2

 

 

1) Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva, Monaca di Monza, curatori Giuseppe Farinelli-Ermanno Paccagnini Garzanti, Milano 1985.

2) Op. cit.

 

 

 

 

 

  @

 

Back