dal libro di Francesca Santucci

 Messaggi dall'antichità

   Superstizione e magia presso i Romani 

edizioni  Kimerik, settembre 2005


(13 x 20 - 184 pagine - Euro 14.00)
 

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Io con i miei occhi ho visto Canidia,1 il nero mantello cinto su in vita, slanciarsi, piedi nudi e capelli sparsi, insieme a Sagana2, la maggiore, ululando: il pallore le faceva orrende d’aspetto ambedue. Presero a grattare la terra con le unghie e a sbranare a morsi un’agnella nera; il sangue era versato nella fossa, per evocane i Mani3, anime che avrebbero dati responsi. Con sé avevano un pupazzo di lana ed un altro di cera4; quello di lana era più grande, perché, a forza di castighi, avesse ragione del pupazzo più piccolo; il pupazzo di cera stava in atto di supplice, come chi è destinato a perire alla maniera degli schiavi. Ecate5 invoca una delle due streghe, Tisifone6 crudele l’altra: avresti visto vagare serpenti e cagne infernali, e la luna, fatta rossa, nascondersi dietro le grandi sepolture, per non essere testimone di simili orrori.

(Orazio, Satire, I, 8.)

 

 

Nel mondo antico la superstizione imperversò intensa, anche fra i Romani, che fin da bambini  cominciavano ad essere iniziati alla magia e alla stregoneria  credendo nell’esistenza della  lamia, una specie di strega che immaginavano si moltiplicasse in numerose lamie, spaventosi spiriti cattivi di sesso femminile vaganti di notte, che terrorizzavano i viandanti, succhiavano il sangue ai  bambini vivi e ne divoravano le carni.
E pure da adulti  credevano all’esistenza di tutta una galleria di esseri malvagi che, continuamente, minacciavano gli uomini, come i lemŭres, le anime inquiete dei cattivi o dei morti in generale,  che si recavano di notte nelle case, con apparizioni improvvise che terrorizzavano i vivi, per punirli dell’incuria verso i propri defunti (per tenere lontani i lemŭres il 9 e il 13 maggio si celebravano le Lemuria, ricorrenza in occasione della quale venivano chiusi i templi e non si officiavano matrimoni), o come le larve, le anime dei trapassati che in vita non si erano comportati bene,  che erravano nel mondo, sempre di notte, tormentati dal rimorso,  ma senza fare del male a nessun, solo spaventando (era  compito del pater familias  sventarne le apparizioni con particolari cerimonie).
E credevano anche che certi uomini  di notte assumessero le sembianze di lupi (…spesso Meri diventava lupo e si nascondeva nelle selve, spesso evocava le anime dai profondi sepolcri e trasportava altrove le messi seminate, Virgilio, Bucoliche, 8)   e assalissero gli ovili, alle maghe che si celavano sotto le sembianze di uccelli, agli spiriti che vagavano sul mare e prendevano di mira le navi affondandole, ai vampiri che succhiavano il sangue umano, alle streghe che si nutrivano di serpenti, volavano di notte, erano capaci di resuscitare i morti, preparavano bevande velenose e uccidevano i bambini.
E  temevano le influenze malefiche dei gufi e consideravano di cattivo augurio che un topo o un cane nero attraversasse loro la strada, e pure credevano alla sacralità e all’intoccabilità  di molti oggetti e persone (ad esempio i neonati e i criminali condannati), e si fidavano ciecamente dei  presagi, preannunciati da abnormità delle visceri degli animali sacrificati, e cessavano qualsiasi azione, addirittura arrivavano ad interrompere una guerra, se ritenevano sfavorevole un presagio.
Quasi tutti portavano degli amuleti; al collo dei bambini si usava appendere una bulla o talismano d’oro, alle porte e agli alberi si ponevano immagini che servivano a scacciare gli spiriti maligni, e si ricorreva a magie ed incantesimi per provocare la pioggia, per curare una malattia, per stornare una disgrazia, persino per distruggere l’esercito nemico.
Le arti magiche furono praticate in maniera continua  presso gli antichi romani anche se considerate reato; testimonianza del fenomeno ci è offerta da autori latini come Apuleio (che fu processato per magia e addirittura scrisse un’orazione giudiziaria per difendersi, il De magia)  che, nelle Metamorfosi, descrisse la strega Panfila (Essa ha fama di essere una maga di primo ordine e di conoscere tutte le formule magiche con cui si evocano i morti: è una strega che, soffiando sui ramoscelli e pietruzze e altri oggetti insignificanti, è capace di trasferire la luce dell’universo stellare nelle profondità del Tartaro e nel caos primigenio, Metamorfosi,  II, 6), come Cicerone, che accusò un suo nemico, Vatinio ((Tu hai l’abitudine di evocare le anime degli inferi, e di placare gli dei Mani con le viscere dei bambini, Contro Vatinio, 6,14) delle stesse pratiche occulte di Canidia, una maga napoletana che non praticava soltanto sortilegi ma che, come riferisce Orazio negli Epodi, arrivò a macchiarsi di omicidio.
Aiutata dalle sue colleghe Veia, Sàgana e Folia,  in rivalità con una maga più potente che le aveva rubato l’amante, Canidia praticò un assassinio rituale su un bambino, facendolo morire d’inedia seppellendolo a metà, e preparando un filtro col fegato e col midollo disseccati della vittima:

l bambino ancora impubere, spogliato delle sue insegne di libero, avrebbe intenerito perfino il cuore crudele dei Traci. Canidia, con serpentelli attorcigliati tra le chiome scomposte, ordina che si brucino rami di caprifico e di cipressi funebri colti in un cimitero, uova imbrattate con sangue di turpe rana, piume di gufo notturno, erbe provenienti dalla Tessaglia e dall’Iberia fertili di veleni, e ossa strappate dalle fauci di una cagna affamata. Sàgana, succintamente vestita, i capelli irti come un cinghiale in corsa o un aspro riccio di mare, bagna la casa intera con acqua dell’Averno.
Senza l’ombra di un rimorso, Veia scava la terra con la zappa, lamentandosi per lo sforzo. Così il bambino, seppellito nella fossa con il volto scoperto, come i nuotatori che emergono dall’acqua soltanto con il mento, morirà lentamente, davanti allo spettacolo di piatti carichi di cibi spesse volte cambiati. E quando gli occhi fissi sul nutrimento negato si saranno chiusi per sempre, il midollo e il fegato disseccati del bambino diventeranno un filtro d’amore.
(Orazio, Epodi, V, 11-38).

E che la realtà fosse proprio questa, cioè che pratica comune fosse sacrificare crudelmente i bambini in riti,  è avvalorata anche dal triste epitaffio trovato alle Esquilie, che così recita:

Giocondo, figlio di Grifo e di Vitale. Mi avviavo verso il quarto anno, ma sono sotto terra, mentre avrei potuto fare la gioia di mio padre e di  mia madre. Una strega crudele mi ha tolto la vita. E’ ancora sulla terra, lei, e pratica ancora i suoi pericolosi artifizi. Voi, genitori, custodite bene i vostri bambini, se non volete avere il cuore trapassato dalla disperazione. 7

Le arti magiche, così diffuse nella società romana, erano state deprecate fin dai tempi più antichi; le Leggi delle Dodici Tavole8 si erano infatti pronunciate anche contro gli incantesimi:

VIII, 1 Qui malum carmen incantassit…qui fruges excantassit…neve alienam segetem pellexeris.
Chi avrà pronunciato un carme funesto di magia…chi avrà fatto incantesimi sulle messi…non si eserciti attrazione sulle messi altrui.

Ed esisteva anche una legge promulgata da Silla nell’81 proprio per cercare di contenere il fenomeno ormai diffusissimo della bassa magia, o magia volgare (l’esercizio di una potenza soprannaturale per scopi malefici), opposta all’alta magia (il mezzo grazie al quale si entrava in contatto con la divinità),  esercitata con assassinî,  la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis.
Altra credenza molto diffusa era  che un uomo o una donna qualsiasi potessero acquistare poteri soprannaturali attraverso pratiche speciali; ad esempio, chi odiava qualcuno poteva defiggerlo, cioè esercitare la “defissione”, pratica attraverso la quale, con riti ben precisi,  lo si consacrava alle divinità infernali:

In una lamina di piombo si scriveva il nome esecrato, con una formula di maledizione…e si inseriva la lamina entro un sepolcro, più raramente in un tempio, in un pozzo, entro una sorgente d’acqua calda, di solito fissandovela con un lungo chiodo passato attraverso la lamina…Il nome dei defissi è scritto sempre con cura, per il timore che un’indicazione poco esatta renda inefficace la defissione…Alle formule imprecative si alternano parole magiche…in tarde iscrizioni dell’Africa settentrionale ritornano abitualmente le misteriose parole bescu, berebescu, arurara, bazagra…Per più precisa specificazione si consacrava agl’Inferi anche qualche parte del corpo del defunto: la lingua di solito, o anche le mani, i piedi o la punta dei piedi; orecchi, narici, cervello, unghie, malleoli, sopraccigli, polmoni; quasi sempre l’intelligenza e  l’anima. (Paoli) .9

 Le lamine di piombo,  tavolette di defissione, sono testimonianza dell’odio violento, della gelosia e dell’invidia  di coloro che le usavano (che non è escluso che non accompagnassero anche con veri e propri delitti le loro imprecazioni) e che speravano, consacrandolo alle divinità infernali, di annientare il nemico: sconfiggere un rivale in amore, liberarsi d’ un avversario, eliminare un concorrente sportivo.
Nelle imprecazioni, quasi sempre in codice, accompagnate da disegni misteriosi,  di un’accesa animosità che impressiona ancora oggi,  scritte in un linguaggio volgare, spesso zeppo di errori perché gli autori  appartenevano ai ceti più umili, dunque erano ignoranti, venivano enumerate con bieco sadismo tutte le parti del corpo che si consacravano alle divinità infernali.
Leggiamo:

Dei infernali, io vi do, se in voi c’è qualche santità, e vi consegno Lichene, serva di Cariso, e che fallisca in tutto quanto essa fa, in tutto quanto le capita. Dei infernali, a voi do le sue membra, il colore, il viso, i capelli, l’ombra, il cervello, la fronte, le sopracciglia, la bocca, il naso, il mento, le guance, le labbra, la parola, la faccia, il collo, il fegato, le spalle, il cuore, i polmoni, gli intestini, il ventre, le braccia, le dita, le mani, l’ombelico, la vescica, le cosce, le ginocchia, le gambe, i talloni, e piante dei piedi, le dita dei piedi. Dei infernali, se la vedrò putrefarsi, vi offrirò molto volentieri un sacrificio. 10

Ed ancora in questo caso la tavoletta di defissione, aspra ed aggressiva, è rivolta da un gladiatore contro il suo avversario:

Uccidete, eliminate, ferite Gallico, generato da Prima, in quest’ora stessa entro la cinta dell’anfiteatro.

Legategli i piedi, le membra, i sensi, il midollo.

Bloccate Gallico generato da Prima, perché non possa uccidere l’orso e il toro né con un sol colpo, né con due colpi, né con tre colpi.

In nome del dio vivo, onnipotente, esauditemi, adesso, adesso, presto, presto. Che l’orso lo urti e lo ferisca! 11

I luoghi privilegiati per praticare la magia erano i cimiteri, dove le donne andavano nascostamente a raccogliere ossa ed erbe per le loro pozioni magiche, per preparare filtri d’amore o misture  per provocare la morte di un nemico, o anche per celebrare cerimonie e sacrifici.
Le pratiche magiche in uso al tempo dei Romani  non servivano, tuttavia, solo per scopi malefici (magia nera), spesso erano usate anche per scopi benefici (magia bianca),  per ri/conquistare la persona amata, per allontanare il malocchio, per scongiurare il male; ad esempio, se sulla porta della propria casa si scriveva la parola arseverse la si proteggeva dal pericolo di un incendio.
C’erano poi gli amuleti che avevano la capacità di tenere lontano il male; rami di corallo, ambra, piccole mezzelune di avorio, anche erbe come la ruta e la verbena avevano poteri simili (la ruta era usata contro l’invidia, la verbena allontanava le sventure), e contro le fatture si rivelavano efficaci le piante spinose.
Spesso le divinità inviavano segni di sventura, ad esempio erano considerati indizi una lepre, una volpe o un serpente che attraversava la strada, o l’orlo della veste che restava attaccato alle scarpe, lo scricchiolio di un mobile, il ronzio delle orecchie, lo starnuto, il crocchiare delle giunture; era di cattivo presagio se si rovesciava il sale, l’olio o il miele, se mentre si mangiava il cibo cadeva di mano, se uscendo di casa s’inciampava sulla soglia, se durante un banchetto si udiva il canto del gallo, ed anche se d’improvviso nel cielo lampeggiava; in quel caso, per allontanare da sé il male o la sfortuna, bastava mettersi a fischiettare per scongiurare la catastrofe, in tutti gli altri casi era necessario tenere sempre gli occhi bene aperti e ricorrere ad una formula di scongiuro o ad un gesto scaramantico.

 

1) Canidia, da cānus, bianco, canuto, e non da cãnis, era una fattucchiera e avvelenatrice  napoletana, una unguentaria, il cui vero nome era Gratidia, storpiato in Canidia da Orazio.

2) Sagana, maior perché aveva una sorella minore, visse ai tempi di Orazio e fu una liberta.

3) Per i Romani le anime dei cattivi o dei defunti in generale.

4) Il pupazzo più grande rappresentava il committente o il demone incaricato del maleficio, il più piccolo il destinatario.

5) Come divinità infernale, Ecate regnava sulle ombre dei morti ed evocava gli spiriti per spaventare gli uomini.

6) Tisifone o Tesifone, la Vendicatrice,  era una delle tre Erinni (Furie), divinità infernale, ispiratrice di passioni tragiche e violente incaricata di punire i più gravi delitti di sangue.

7) Catherine Salles, “I bassifondi dell’antichità”, Rizzoli, 1985, Milano, pag. 257.

8) Codice di leggi redatto a Roma tra il 451 e 450 a.C. riguardante tutto il diritto: sacro,  pubblico e penale.

9) G. Silvestro, “Aureo Tevere”, Loffredo editore, 1975, Napoli, pag. 250.

10) Catherine Salles, “I bassifondi dell’antichità, Rizzoli”, Milano,  1985, pag. 258.

11) Ibidem.

 

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