Francesca Santucci

Una gita a Gaeta

 

Francesca Santucci, Del mare, dell'amore e d'altre storie, Youcanprint 2018 (racconti)

 

Gaeta, 2 febbraio 1972. Data quel tempo la fotografia, scattata in occasione di una gita scolastica, che ho ritrovato per caso in un vecchio diario personale chiuso col lucchetto dimenticato in  fondo ad un cassetto.
Con i capelli al vento, i jeans un po’ scoloriti come si usava allora, senza giaccone addosso, anche se era il mese di febbraio, perché lì il clima era mite anche d’inverno e febbraio sembrava già inoltrata primavera, sono in piedi, sopra una barca da pesca che reca il numero d’immatricolazione “GA. 1308”, ormeggiata nel porticciolo del borgo dei pescatori. In foto con me ci sono due compagne di classe del ginnasio- liceo classico Giuseppe Garibaldi, eravamo andate in gita da Napoli a Gaeta, da un golfo all’altro, e c’è anche un “biondino” che non era nella nostra classe, di cui proprio non mi sovviene il nome, solo ricordo che mi “corteggiava”, ma io lo ignoravo, perché allora i miei pensieri erano tutti per un solo ragazzo, che si chiamava Bruno, ma ai miei occhi innamorati brillava più del sole di Napoli e Gaeta messi insieme. Alle nostre spalle ci sono altre barche ancorate in quel golfo incantevole del quale, pur provenendo da un golfo meraviglioso, già subivo il fascino.
Sorrido: quanti ricordi si affollano nella mia mente! Ricordo che per le mie compagne Gaeta fu una piacevole scoperta, non per me, che già ne conoscevo quasi tutte le bellezze, anzi, potrei dire che la conoscevo già prima di conoscerla. Spesso, infatti, da bambina, avevo sentito ripetere il nome di questa località (e ancora lo avrei sentito ripetere negli anni!) da mio padre che, dopo ogni rimprovero al mio indisciplinato fratello maggiore, sempre concludeva dicendo: “Ti manderei a Gaeta!”.
Da quello spauracchio, fantasiosa già allora, avevo immaginato quella cittadina come un luogo dove venivano inflitte terribili punizioni, covo temibile e pericoloso di pirati e di banditi, ed invece quando, più avanti nel tempo, un giorno mio padre ci portò lì, al mare, continuando, poi, a condurci d’estate negli anni successivi, scoprii essere tutt’altro … ma compresi anche il senso della sua minaccia: Gaeta è dominata da un castello a strapiombo sul mare, un imponente fortezza angioina-aragonese che, a quel tempo, aveva l’ala angioina adibita a carcere militare. Per estensione, il massimo della punizione che poteva augurare a mio fratello era Gaeta, ma lui restava insensibile a quella minaccia, e continuava ad essere indisciplinato.
Amante del mare, mio padre adorava le belle località tra alta Campania e basso Lazio, Castelvolturno, Mondragone, Baia Domizia, Minturno, Formia, Gaeta, Terracina, ma in particolare Gaeta, dove aveva fatto il militare di leva su una Corvetta. E fu da lui che imparai ad amare anch’io questa splendida cittadina, situata sul suggestivo promontorio di monte Orlando, con la bellissima spiaggia di Serapo e il paesaggio che verso sud si arricchisce di profumati aranceti ininterrotti fino a Formia.  
Celebrata sin dal tempo degli antichi romani, che la chiamavano Caieta e che, sotto l’incanto del suo cielo e del dolce clima, i patrizi avevano eletto (non ultimo Cicerone)
a sede dei loro otia edificandovi sontuose ville, che ebbe il suo massimo splendore nel Medioevo come ducato marinaro, che fu piazzaforte del regno di Napoli, fortezza, porto militare e porto peschereccio, chiamata la “porta del sud” perché ingresso al meridione d’Italia del quale condivide molte tradizioni, usi e costumi, Gaeta ebbe momenti storici di grande importanza e altissimo valore, come quello fra il 1860 e il 1861, che vide protagonista anche l’ultima regina di Napoli, la bella e fiera Maria Sofia di Wittelsbach (la sorella di Sissi), consorte del dignitoso e coraggioso re Francesco II, l’ultimo Borbone a sedere sul trono del Regno delle due Sicilie.
La regina, che aveva solo diciannove anni, chiusa nella fortezza assediata per ben centodue giorni, di cui settantacinque trascorsi sotto il fuoco nemico, incurante delle bombe, si batté dalla Rocca eroicamente contro i garibaldini e l’esercito piemontese, affrontando insieme al marito gli stessi pericoli degli umili e coraggiosi soldati napoletani, animando strenuamente la resistenza, sostenendo impavida i combattenti, soccorrendo senza tregua i feriti e assistendoli negli ospedali, rifiutando l’invito del consorte di lasciare la roccaforte quando la situazione
peggiorò per la penuria di cibo, per il tifo e per il freddo
Così a Napoleone scrisse Francesco II:
Ho fatto ogni sforzo per persuadere S.M. la Regina a separarsi da me, ma sono stato vinto dalle tenere sue preghiere, dalle generose sue risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali la cura dei feriti e degli ammalati; da questa sera Gaeta conta una suora di carità in più.
Maria Sofia divenne un simbolo così forte di quei giorni che il suo eroismo riverberò nel tempo e colpì l’immaginario di molti scrittori, tra cui Marcel Proust, che parlò di lei come della regina soldato sui bastioni di Gaeta, e D’Annunzio che, in ricordo delle sue origini, per lei coniò l’appellativo di aquiletta bavara.
Grazie a mio padre conoscevo bene le sette spiagge di Gaeta, belle e pittoresche, con le acque di una trasparenza cristallina, soprattutto la spiaggia di Serapo, così chiamata perché probabilmente in ere antiche vi sorgeva un piccolo tempio dedicato a Serapide, il barbuto dio greco-egizio dell’oltretomba, del mare e della fertilità, da cui pare derivi anche l'antico nome di questa parte di costa, "Serapi" o "Serperi". Lunga circa 1,5 km, dalla dorata sabbia finissima,
offre pure la visione di uno scoglio poco distante la cui forma allungata ricorda proprio una nave, perciò è chiamato "Nave di Serapo".  Ma conoscevo anche la spiaggia dell’Ariana, collocata fra due speroni di roccia su uno dei quali troneggia una delle più famose torri costiere di Gaeta,  la Torre Viola (che, però, viola non è!), costruita in ere lontane per avvistare gli incursori saraceni, e la piccola spiaggia di Fontania, dimora del console dell'antica Roma Gneo Fonteo, con due grandi grotte in una delle quali c’è una piccola sorgente che potrebbe spiegare l'etimologia del nome. E poi, fra quella di Arania e quella di Fontania, la Quaranta Remi, una bella spiaggetta raggiungibile solo a nuoto o in barca, così chiamata perché la distanza fra le due si può coprire con quaranta remate. E ancora la spettacolare spiaggia dell'Arenauta incorniciata dalla macchia mediterranea, luogo naturale e selvaggio protetto dalla roccia scoscesa, posta sotto una falesia di eccezionale bellezza, ma famosa soprattutto per il “Bagno dei 300 scalini", al quale si accede mediante una lunga scalinata, che con un solo sguardo lascia accarezzare le isole Pontine, Ischia, Procida e il Circeo. E poi quella di San Vito, una piccola darsena riservata, con  grotte e calette, ed acque limpide ideali per le immersioni,  e quella di Sant'Agostino, incantevole lingua di sabbia, tra scogliere, falesie e campagna, con il monte Moneta dalle pareti rocciose gioia degli scalatori.
Ma quel giorno con i professori, le compagne della mia sezione e qualche aggregato (come il “biondino” della foto, figlio di un’insegnante) la gita prevedeva la visita al Santuario della SS. Trinità, chiamato anche "Santuario della Montagna Spaccata", risalente all’XI secolo, ed un’escursione alla “Grotta del turco”, che mai avevo visitato prima.
Ricordo con intatta emozione il mio stupore quando, dopo la foto di rito al borgo dei pescatori, dopo uno sguardo ammirato al
castello, nell’infinito splendore di quel luogo meraviglioso, i professori ci guidarono alla scoperta di uno dei più suggestivi siti di Gaeta,  la Montagna spaccata, la cui fenditura nella roccia per tradizione si vuole creata dal sisma che scosse la Terra alla morte del Cristo crocifisso. Proprio sopra  la fenditura, dinanzi ai nostri occhi incantati si parò, visione d’incomparabile bellezza, il Santuario della SS. Trinità. Tanti i religiosi illustri che qui sostarono o si ritirarono in preghiera invogliati al silenzioso raccoglimento dalla Bellezza di quest’angolo del creato! San Bernardino da Siena e sant’Ignazio di Loyola lo visitarono, ma, soprattutto, un santo amato dai giovani perché con pazienza e benevolenza molto vicino era stato ai giovani, a tutti, figli del popolo e figli dei principi, san Filippo Neri, colto e gioioso, che teneramente si prodigava per il prossimo, che amava la Natura e le sue creature, del quale si narra che abbia vissuto all’interno della Montagna spaccata e che abbia dormito su un giaciglio di pietra, qui conservato e noto come “Il letto di san Filippo Neri”. A destra della chiesa, in  un corridoio, alle pareti le stazioni della Via Crucis in riquadri in  maiolica  accompagnati dai versi del Metastasio, che pure ammirammo, ma lo stupore fu maggiore quando, da un lato della chiesa, varcato un cancello d’ingresso accanto al quale si ergeva un fonte con una scritta in latino di un passo del Cantico dei Cantici, 8.7, Aquae multae non potuerunt estinguere charitatem MDCLXXXVII (le grandi acque non possono spegnere l’amore!),  discendemmo a visitare  la  suggestiva “Grotta del Turco”.  
Varcato  il cancello, in un silenzio prima riverente, poi intervallato dai sussurrati commenti di noi visitatori, nel profumo delle rocce e dell’umido,  accompagnati dal  languido ribattere delle onde, prima lontano, poi sempre più vicino,  iniziammo la lenta discesa di una lunga scalinata, formata da duecentosettantadue gradini scivolosi che ci condussero nelle viscere della montagna fino all’approdo nella  “Grotta del turco”, dove scoprimmo l’impressionante impronta di una mano, accompagnata da un distico in latino del XV secolo: Improba mens verû  renuit quod fam./ Fate tu credere, at hoc digitis saxa liquata probant, "Un incredulo si rifiutò di credere ciò che la tradizione riferisce, lo prova questa roccia rammollitasi al tocco delle sue dita"!
Nell’IX secolo, ai tempi del ducato di Gaeta,
per sessant'anni, dall’846 al 915,  le navi dei Saraceni tormentarono la città con le loro scorribande, ed era tra le fenditure di questo strategico promontorio che si nascondevano gli incursori, pronti ad attaccare di sorpresa le navi in transito per depredarle dei loro carichi. La leggenda vuole che l’impronta sia stata lasciata dalla mano di un marinaio turco, incredulo che la montagna si fosse spaccata alla morte del Cristo.
Così, infatti, si legge nell’epigrafe moderna apposta nella grotta:
Si racconta che un visitatore miscredente (forse un marinaio turco) si rifiutò di credere che la montagna si era spaccata alla morte di Gesù Cristo in croce e, per disprezzo, appoggiò la mano alla roccia. La roccia si rammollì miracolosamente e vi rimase l'impronta della sua mano.
Lungamente sostammo nella Grotta, tutti stupiti ed ammirati contro quelle rocce, di fronte a quell’angolo di mare blu screziato dai riflessi color dell’oro dei raggi del sole che riuscivano a scavarsi un varco, lungamente sostai in estatico rapimento in quel luogo incantevole dove l’animo si riconfortava di fronte alla vera Bellezza che solo la Natura sa offrire, e fu duro distaccarsi e riprendere la via del ritorno.
Ma ancora un’altra sorpresa ci attendeva … La gita prevedeva
il pranzo al sacco, pertanto avevamo consumato i panini portati via da Napoli, variamente farciti dalle nostre amorevoli genitrici, però il dispendio di energie e le sollecitazioni dell’aria di mare soprattutto a noi alunni avevamo fatto venire di nuovo appetito, perciò fu accolta con entusiasmo la proposta di fermarci a comprare qualcosa da mangiare al borgo prima di metterci in viaggio per Napoli … e fu così che scoprimmo un’altra bontà del luogo che tutti indistintamente vivamente apprezzammo: le “tielle” e i “caniscioni”, preparazioni tipiche a forma di doppia pizza o ripiegati, con pesci e verdure, grande abilità delle massaie gaetane.
Al rientro, sul pullman turistico che, monotonamente dondolando, ci riportava a casa, riconfortata e stanca per l’escursione, mi assopii un po’, ma nella mia mente cominciarono a passare e ripassare le immagini dei luoghi che avevo visto, e la realtà si confondeva con la fantasia, e mi pareva che si animassero i personaggi della storia di Gaeta che s’intrecciava con quella di Napoli, e, come in sogno, vedevo il golfo di Napoli che si univa con quello di Gaeta e diveniva un’unica lunga meravigliosa conca dove fiorivano insieme limoni e aranci, e il turco con i suoi compagni fuggiva dalla costa di Napoli per approdare a quella di Gaeta, e Maria Sofia insieme a Francesco II sparava all’impazzata dagli spalti della Rocca, e dal carcere fuggivano i militari e si univano all’esercito napoletano, e vedevo anche il mio Bruno che mi aspettava a Napoli, che, vestito da soldato borbonico, animosamente si batteva con un garibaldino (che strano, lui era un convinto pacifista!), e mio padre in alta uniforme della Marina, e tutti, con carabine, fucili e moschetti, sparavano, sparavano, sparavano … Uno scossone improvviso mi strappò alle mie fantasticherie riportandomi alla realtà: no, non era un colpo di cannone, era la frenata brusca del pullman, eravamo arrivati a destinazione.
Sotto scuola, fra i tanti genitori in attesa, distinsi da lontano la sagoma di mio padre impettito e fiero come un generale (ché tale si credeva, solo per aver assolto agli obblighi di leva su una nave, perciò si atteggiava in posa marziale!). Guardava tra la folla, mi cercava con lo sguardo, agitai la mano nella sua direzione, mi vide, pensai: “papà, manda me a Gaeta"… “papà…mandami ancora a Gaeta”!

 

 

(racconto presente anche nell'antologia del Premio Dragut 2014)

 

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