Francesca Santucci

 

 

UN INGANNO SPUDORATO

 

 

(AA.VV., "Poetesse e scrittrici d'Italia", Tomarchio editore 2025)

 

[…] non si può mai essere abbastanza caute

 nei rapporti con l’immeritevole altro sesso.

(Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”)

 

La vita a Whitecastel, un villaggio nel sud della Scozia,  così chiamato dall’antico castello in  pietra bianca come la neve che lo dominava, immerso al confine con l’Inghilterra, sulla vecchia rotta delle carrozze da Londra a Edimburgo, scorreva tranquilla come le acque del vicino fiume, l’Esk, popolato da placide trote, quieti salmoni e silenziosi molluschi d'acqua dolce.

Il villaggio, situato alla foce del fiume, incorniciato da colline ondulate, macchiate in tarda estate di eriche viola, disseminato di fattorie e graziosi cottage circondati da prati e giardini, era abitato da uno sparuto gruppo di anime rispettose della morale e di Dio, saldamente guidate dall’anziano reverendo Thompson, che non era originario della zona, ma vi era approdato giovanissimo, secondo alcune chiacchiere (mai provate), perché lì trasferito dalla Chiesa in seguito a una relazione troppo affettuosa intrattenuta con una giovanissima parrocchiana già moglie e madre. A onor del vero, però, bisogna dire che mai nel villaggio aveva dato adito a maldicenze e si era sempre comportato onorevolmente.

I suoi parrocchiani erano tutte persone a modo, dal primo all’ultimo, dal modesto fabbro al più agiato possidente, virtuosi, morigerati, sobri nel mangiare e nel bere (solo qualcuno, di tanto in tanto, si lasciava andare a qualche boccale di birra o bicchierino di whisky di troppo). Generosi e caritatevoli, soprattutto le donne si dimostravano grandi benefattrici verso i più bisognosi che, pure, non mancavano a Whitecastel, tanto che, oltre ad elargire loro cibo e indumenti, due volte l’anno, in primavera e in autunno, per raccogliere fondi da destinare ai membri disagiati della comunità, si premuravano di organizzare un ballo di beneficenza, che richiamava partecipanti anche dai villaggi vicini.

La vita, dunque, procedeva quietamente, come si confaceva a un piccolo centro di provincia, lontano dalla capitale, Edimburgo, che registrava fermenti e agitazioni contro l’Inghilterra.

Nulla mai fino ad allora aveva turbato la pace del luogo, che regolarmente registrava nascite, fidanzamenti, matrimoni e morti, ma quell’anno accadde un vero e proprio scandalo, che turbò la serenità degli abitanti e portò il villaggio alla ribalta, a causa di una coppia di forestieri, lei giovanissima (non aveva ancora sedici anni) e di bell’aspetto, lui più anziano (già trentenne), ma attraente, elegante, di maniere accattivanti e forbito eloquio, arrivati per unirsi in matrimonio, come tanti forestieri solevano fare, per eludere le severe leggi inglesi e usufruire di quelle scozzesi più libere.

Allora, infatti, in Inghilterra vigeva una legge emanata nel 1753 (il Lord Hardwicke's Marriage Act) che impediva ai minori di 21 anni di sposarsi senza il consenso dei genitori, e il matrimonio poteva essere celebrato solo in chiesa. Invece in Scozia dopo i 15 anni ci si poteva sposare senza il consenso, e non necessariamente in chiesa o davanti a un sacerdote. Marriage by Declaration si chiamava l’atto che sanciva così liberamente il matrimonio irregolare, che poteva avvenire anche attraverso l’antico rito celtico dell’handfasting, cioè il gesto di legare le mani degli sposi con un nastro, simbolo dell’unione e dell'impegno reciproco. La legge scozzese richiedeva solamente che la coppia dichiarasse  davanti a due testimoni la volontà di sposarsi, chiunque poteva unire una coppia in matrimonio, e a Whitecastel la cerimonia era solitamente officiata dal fabbro.

Ebbene, anche quella coppia era arrivata al villaggio per essere unita in matrimonio irregolarmente, essendo la futura sposa di minore età, ma la loro storia si rivelò non essere proprio limpida perché il futuro sposo, contrariamente all’apparenza di gentiluomo, si dimostrò un vero mascalzone.

La giovinetta si chiamava Róisín ed era la diletta figlia di Mr. O'Brien, un ricco proprietario terriero del Cheshire, una contea dell’Inghilterra del nord, ma originario dell’Irlanda, che aveva dato a sua figlia quel nome di origine gaelica (Róisín, piccola rosa) proprio in omaggio alla sua terra natale.

Bella, con pelle nivea, grandi occhi verdi che illuminavano un volto incorniciato da morbidi capelli rossi, allegra e vivace, di grande intelligenza, ma anche molto ingenua, come tutte le giovinette sognava l’amore romantico, ignara che il suo sogno si sarebbe trasformato in un incubo, che ebbe inizio il 2 aprile 1779, quando con l’inganno fu portata via dal prestigioso istituto femminile da lei frequentato nei pressi di Liverpool.

Quel giorno un uomo, rivelatosi, poi, un losco individuo, spacciatosi per il nuovo maggiordomo della casa di Róisín, si presentò alla scuola della giovinetta e le consegnò una lettera inviata (così riferì, ma era falso) dal Dr. Williams, il medico della sua famiglia, che le comunicava che sua madre era in punto di morte, perciò doveva fare subito ritorno a casa.

Róisín, con il permesso della direttrice, in verità inizialmente un po’ titubante ad accordarlo, immediatamente si mise in viaggio con il maggiordomo per raggiungere sua madre.

Durante il viaggio, per cambiare i cavalli, la carrozza sostò a Manchester. Qui la giovinetta fu fatta entrare in una stanza privata, nella quale ad attenderla c'era un distinto signore sulla trentina, di aspetto gradevole, ben vestito, garbato, che la intrattenne in una piacevole conversazione, affascinandola con i suoi modi e le sue parole, recitandole anche un sonetto d’amore del grande William Shakespeare, che accesero l’immaginazione della sprovveduta giovinetta.

 

All’amata


Se leggi questi versi,
dimentica la mano che li scrisse:
t’amo a tal punto
che non vorrei restar
nei tuoi dolci pensieri,
se il pensare a me
ti facesse soffrire.

 

Quando la carrozza fu pronta per ripartire, salì anche lui, si presentò come Mr.  Charles George  Wright, un amico di suo padre, e la rassicurò sulle condizioni di salute di sua madre, che non era malata. Ad aver bisogno di lei era suo padre, che lo aveva incaricato di recarsi a prenderla a scuola e di  accompagnarla a Kendal per incontrarlo.

Ingenuamente, incoraggiata alla partenza dal maggiordomo (in realtà complice di Mr. Wright), Róisín gli diede ascolto, ma quando arrivò a Kendal scoprì che suo padre non c'era.

Allora Mr.  Wright, con un’espressione grave dipinta sul volto,  disse di avere una brutta notizia da comunicarle: la banca di suo padre era fallita, la sua attività era rovinata e lui era in fuga. L’unico modo per evitare che i creditori si appropriassero del suo patrimonio era attuare il piano proposto dall'avvocato di famiglia, Mr.  Evans, e, cioè, Róisín avrebbe dovuto sposarsi, suo padre avrebbe ceduto a lei tutti i beni che, per legge, dopo il matrimonio, sarebbero diventati di proprietà del marito, il quale, a sua volta, li avrebbe restituiti al suocero. 

E le propose di accettare che fosse lui a diventare suo marito.

La giovinetta restò molto stupita, ma non aveva motivo di non credere alle sue parole e, così, per evitare la rovina finanziaria del padre, spinta dall’amore filiale e dall’ubbidienza, ma anche dall’attrazione nata verso l’affascinante uomo durante gli spostamenti, accettò.

Poiché, però, era ancora minorenne, e il padre non poteva accordare il permesso al matrimonio richiesto per legge in Inghilterra perché fuggitivo, bisognava sposarsi altrove, dove avrebbe potuto farlo liberamente, cioè a Whitecastel, e lì Róisín, Mr. Wrigh e il maggiordomo si  diressero in tutta fretta.

A Whitecastel rimasero solo un giorno e una notte, ospitati da miss Charlotte Lucas, un’anziana signorina che affittava camere. La gentile donna mise loro a disposizione delle stanze semplici, ma confortevoli, dove poterono riprendersi dal viaggio e rinfrescarsi.

Il matrimonio fu celebrato  velocemente, il giorno stesso del loro arrivo, nella bottega del fabbro del villaggio che, secondo l’usanza, sancì di persona l’unione, con un colpo di martello sull’incudine e donando alla sposa un ferro di cavallo come buon augurio.

 

 

 

Tutti coloro che, incuriositi, assisterono al matrimonio, pensarono che formavano proprio una bella coppia.

Róisín era deliziosa, con un abito in mussolina verde chiaro ricamata, con guarnizioni di merletto ai bordi del collo e delle maniche, guanti di raso bianco fasciavano le sue mani, anche le calze di seta erano di colore bianco, e le scarpine in tinta col vestito. Sulle spalle portava una mantella verde scuro trattenuta da una spilla a forma di medaglione montato in oro, il capo era coperto da un grazioso cappellino beige bordato di un nastro argenteo, dal quale fuoriusciva qualche ricciolo fiammeggiante.  Fra le mani reggeva un mazzolino di eriche violette e cardi rosa, fiori donati  dallo sposo.

Mr. Wright, di statura un poco superiore a quella della futura sposa, era similmente ben vestito, con pantaloni beige aderenti infilati negli stivali che arrivavano al polpaccio, camicia di lino bianca, cravatta legata intorno al collo, panciotto a doppiopetto di colore bianco, marsina marrone scuro, soprabito con colletto di velluto a contrasto in tonalità marroncina e cappello alto  leggermente conico.

Dopo la cerimonia, nella locanda del villaggio, gli sposi (lui di ottimo umore al pensiero che si sarebbe arricchito con la dote della giovane moglie) mangiarono del buon cibo locale, una zuppa di verdure miste e uno stufato composto da patate, cipolle e manzo, come dolce una torta con lamponi e panna arricchita da avena e whisky, e da bere birra, sidro di mele e  tè  verde. Poi trascorsero la notte in casa di miss Charlotte e l’indomani di buon’ora, dopo aver consumato una lauta colazione da lei offerta, a base di ottimo porridge cotto in un pentolone di coccio, servito in ciotole di legno, accompagnato da frutta fresca, miele e marmellata e  tè  nero, sempre insieme al maggiordomo, partirono per la Francia, dove, come aveva riferito Mr. Wright, avrebbero dovuto incontrare il padre fuggitivo della giovinetta, in realtà, presagendone l’ira, per attendere che la sbollisse e accettasse il matrimonio.

Accadde, però, che a Calais furono raggiunti da due zii di Róisín, che si erano messi sulle loro tracce inviati dal padre, allertato dalla scomparsa della figlia dalla direttrice della scuola. Gli inganni cominciarono a svelarsi: gli affari di suo padre erano in ordine e suo marito l'aveva ingannata, sposandola per impossessarsi dei suoi beni.

Il finto maggiordomo riuscì a darsi subito alla fuga e di lui si persero le tracce, Mr.  Charles George  Wright fu arrestato, e Róisín, sconcertata, addolorata e mortificata per la sua sconsideratezza, tornò in Inghilterra con gli zii.

Il 23 giugno 1782, dopo un processo durato tre anni, che interessò tutto il Regno di Gran Bretagna, arrivando la notizia anche a Whitecastel, il truffatore (che, tra l’altro, aveva già moglie) fu riconosciuto colpevole di rapimento e matrimonio illegittimo. Per le sue malefatte fu condannato a tre anni di reclusione da scontare nella famigerata prigione londinese di Newgate, che accoglieva criminali di ogni sorta, spesso in numero più elevato di quanti potesse tenerne, dove i prigionieri incatenati vivevano in condizioni disumane, fra sporcizia e pidocchi, spesso torturati dalle guardie, luogo tristemente famoso anche per le impiccagioni che vi avvenivano regolarmente.

Per quanto riguarda Róisín riuscì a liberarsi del matrimonio con un decreto speciale del Parlamento che lo annullò e, qualche anno dopo la triste avventura, si sposò felicemente, questa volta, però, con un vero gentiluomo.

Grande fu lo sconcerto fra gli abitanti di Whitecastel, che seguirono con particolare attenzione la scandalosa vicenda.

Nel corso degli anni, famoso il villaggio proprio come meta d’amore per  coppie in cerca di matrimoni segreti, erano state celebrate nozze clandestine di giovani romantici desiderosi di sposarsi nascostamente quasi sempre perché ostacolati dai genitori a causa della loro giovane età o per una disparità sociale, e certamente vi era stato anche qualche matrimonio dettato da ragioni d’interesse, ma mai era capitato al fabbro di legittimare un inganno così spudorato.

Il giorno dopo la sentenza che aveva condannato Mr.  Charles George Wright, il reverendo Thompson tenne in chiesa un bellissimo sermone, nel quale, con enfasi e ardore, ancor più esaltò i valori della fede e della morale, esortando i parrocchiani ad astenersi dai vizi, come la cupidigia,  perché l’avidità di denaro porta sempre alla rovina spirituale, e spronandoli a perseguire la via del bene, che consente all’essere umano di dare il meglio di sé.

E, ricordando la sventatezza di Róisín che si era lasciata abbagliare da uno sconosciuto per niente rispettabile e timorato di Dio, ma del quale quasi tutte le donne del paese, sospirando, loro malgrado riconoscevano l’indiscusso fascino, non mancò di rivolgersi direttamente soprattutto alle fanciulle in età da marito, per metterle in guardia dagli incontri sbagliati con cacciatori di fortuna come Mr.  Wright.

Raccomandò loro di non abbandonarsi a sogni troppo romantici, di diffidare degli uomini, di essere giudiziose, di avere buon senso e, soprattutto, prudenza, virtù che, come scriveva san Tommaso, è la “retta norma dell'azione”, l’auriga virtutum (il cocchiere delle virtù), poiché, inducendo alla riflessione, frenando gli impulsi dettati dalle passioni (dalle quali è preferibile stare lontani) indica regola e misura e consente di agire bene ed evitare il male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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